Utopie, distopie e libertà
Di Carlo Di Stanislao
“Per lungo tempo utopia è stato un altro nome per definire l’irreale e l’impossibile. Noi l’abbiamo posta in antitesi al mondo; in realtà sono le nostre utopie che ci rendono il mondo tollerabile: sono le città e gli edifici che la gente sogna, quelli in cui finalmente vivrà. Più gli uomini reagiscono alla propria condizione e la trasformano secondo modelli umani, tanto più intensamente vivono nell’utopia. … L’uomo cammina con i piedi in terra e la testa in aria; e la storia di ciò che è accaduto sulla terra … è solo una metà della storia dell’uomo”
Lewis Mumford, Storia dell’utopia
Ha al centro una commedia di Aristofane, “Le donne all’assemblea” e come scopo un progetto di riforma radicale della società che trova rispondenza con sorprendente puntualità nel nucleo più audace della Repubblica di Platone e, come in Aristofane, ridicolizza l’idea che si possano mettere in comune le ricchezze e le relazioni sessuali. “Nel corso delle feste Scire, un gruppo di donne, capeggiate da una di loro, Prassagora, particolarmente dotata di carisma e capace di pilotare un gruppo bene organizzato e proteso all’azione politico-assembleare, ha deciso di partecipare ai lavori dell’assemblea popolare. Naturalmente in quanto donne non potrebbero, perché la democrazia ateniese, come ogni società premoderna, è maschiocentrica. Perciò si travestono da uomini, con barbe, mantelli e sandali adeguati al ruolo.”
Da qui parte, con il commento al capolavoro di Aristofane, la “La crisi dell’utopia”, l’ultimo saggio di Luciano Canfora, uscito per Einaudi a Marzo e presentato da Lilli Gruber, su La7, qualche sera fa (con un Severnini col fiato corto e molto a mal partito di fronte al sapere del “professore”), che parla del conflitto paradigmatico dell’utopia e della a possibile costruzione dell’uomo nuovo, sulla base di un assetto sociale totalmente innovativo, fondato – secondo l’intuizione platonica – sulla proprietà collettiva, o meglio sulla negazione della proprietà e sulla cancellazione dell’istituto familiare con tutto il suo carico di egoismi. Più in generale, su una palingenesi complessiva di cui l’‘uomo nuovo’ è o dovrebbe essere il risultato.
Idea difficile da sostenere in questo mondo dell’egoismo e della economia globalizzata e, soprattutto, ricordando che, dal quinto libro de “la Repubblica” di Platone, hanno prso spunto studiosi reazionari con terribili usciti “eugenetiche” e a quelle parole si sono espirate quelle orrende di Walter Darré (Neuadel aus Blut und Boden, 1930), oltre che la degenerazione tardo-nazionalsocialista del programma Lebensborn (che coniuga eliminazione degli ‘scarti umani’ con le unioni da allevamento) e anche, in tempi più recenti, la predicazione scientistica della ‘necessaria’ eliminazione dei disabili (specie se nati tali) che prende piede anche tra le socialdemocrazie nordiche, con il mito svedese della razza ‘pura’ può appellarsi al terribile capitolo 4 della Germania anche di Tacito, ma che fa capolino, appunto, anche in Platone in relazione al programmatico allevamento di esemplari umani ‘migliori’; che influenza, con variazioni, Giambulo e Campanella.
Anche a sinistra, mentre si strutturava e si irrigidiva in Partito-Stato, il comunismo del XX secolo rinverdiva, alquanto strumentalmente, la polemica anti- ‘socialismo utopistico’ del Manifesto e della molto meno brillante formula del “passaggio dall’utopia alla scienza”, sicché oggi, è proprio l’idea di progresso che viene bollata come illusoria dai fedelissimi della ‘fissità’ immutabile dell’uomo e che sono i più numerosi fra gli intellettuali di sinistra.
Ancora una volta Canfora, professore emerito a Bari, non finisce di stupirci, come era accaduto, ad esempio, due anni fa, con Gramsci in carcere e il fascismo, pubblicato in fretta, ma molto articolato e ben pesato, nato dall’esigenza di portare nuovi elementi a supporto del proprio ragionamento, di rettificare alcune inesattezze e soprattutto rispondere ai propri critici, come si avverte giàn nella citazione in apertura di Rossana Rossanda che aveva garantito per Grieco, avendolo conosciuto, cui viene opposta l’autorità di Tucidide sulla poca attendibilità delle testimonianze di parte, con una stesura in cui Canfora si dice convinto che la lettera, o meglio le lettere inviate nel 1928 da Grieco a Gramsci, Terracini e Scoccimarro in carcere a S.Vittore a Milan, o fossero un falso costruito dalla polizia politica fascista, avendo già argomentato questa sua tesi nel 1989, in un’appendice al libro Togliatti e i dilemmi della politica edito presso Laterza, titolando Storia di una strana lettera, con una serie di precise osservazioni e di riferimenti documentari che dimostravano, appunto, che le lettere erano state “fabbricate dall’Ovra” .
In questo libro racconta, con un punto di vista libero e che coglie di sorpresa, l’analisi di un conflitto paradigmatico sull’utopia, che, nei secoli, da Aristotele a Tommaso Campanella, da Jonathan Swift a Friedrich Engels, darà luogo a diversi orientamenti, che sapranno immaginare mondi più giusti e felici, oppure criticarne aspramente la concezione, considerandola illusoria o – peggio – mistificatoria della realtà, come fa ad esempio Engels, nel pamphlet intitolato “L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza”, dove se la prende con gli stessi socialisti – da Fourier a Owen – definiti dispregiativamente ‘utopisti’ perché portatori di una visione astratta della società, priva di una adeguata analisi scientifica che ne individui le leggi di trasformazione della realtà e soprattutto gli attori – il proletariato – in grado di attuare il socialismo.
Ma per Canfora, infine, come per Tommaso Moro, l’utopia è un ‘non-luogo’ (“ou-topos”) e anche un luogo felice (“eu-topos”) per la prefigurazione di un mondo impossibile che è l’unico in grado di dar luogo ad un cambiamento davvero radicale.
Insomma, per lui, l’utopia è necessaria per cambiare e prefigurare un futuro migliore, cosìmcome accade al drammaturgo inglese Tom Stoppard nello spettacolo-kolossal The Coast of Utopia, approdato da poco in Italia, prodotto e diretto da Marco Tullio Giordana, in cui l’utopia, fin dal titolo, è come un miraggio nel deserto: lo si scorge, vi si avvicina, ma poi ci si accorge che non esiste. Tuttavia è necessaria, per il viaggiatore, per proseguire e pensare che un approdo da qualche parte ci sia.
In questo modo l’utopia è una necessità, come la fede. Ma ciò che soprattutto accade (leggendo Canfora o guardando lo spettacolo di Stoppard-Giordana, la consapevolezza che da un certo punto in poi Marx e il marxismo abbiano dominato la scena delle idee e spazzato via gli altri pensatori sociali; mentre ora si vede, dopo il fallimento del pensiero e della esperienza marxista, che occorre recuperare l’utopia, attraverso il recupero di di pensatori come Herzen, con la sua concezione di un’evoluzione liberale, progressiva della società, di un’evoluzione del popolo fatta coinvolgendolo, non con l’imposizione e la violenza.
Corre qui l’obbligo di ricordare, che il contrario della utopia è la ditopia, che nasce, come ci ricorda Paola gatti, dottoranda presso la gregoriana, con la leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij, in cui viene sostenuta l’antinomia tra libertà e felicità: la prima diventa inevitabilmente per l’uomo un peso insopportabile, e solo un potere assoluto e autoritario è in grado di portare gli uomini alla felicità. Tale tema viene ripreso in forme diverse dai tre romanzi distopici Noi, Il Mondo Nuovo e 1984, con primo che sottolinea la perdita della nozione di individualità come condizione della felicità; il secondo che presenta un totalitarismo fondato sul controllo tecnologico e sulla cancellazione dei processi naturali di riproduzione ed il terzo, infine, che costituisce una sorta di fenomenologia del potere, in cui la teoria della leggenda del Santo Inquisitore viene scardinata nell’affermazione di una crudeltà totalmente fine a sé stessa.
E sarà proprio Aldous Huxley, ne “Il mondo nuovo” a dirci che utopie e distopie sono collegate, perché le promesse utopiche di una città rinnovata, razionale e beata mascherano in realtà meccanismi perversi per l’individuo e la collettività e non di meno: “Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente di fronte a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? … Le utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta penseranno ai mezzi d’evitare le utopie e di ritornare a una società non utopistica, meno perfetta e più libera”.