Un romanzo e una vita

Di Carlo Di Stanislao

Anja Niedringhaus

Ci sono legami di seta… che ti aspettano su incroci del destino che mai avresti immaginato.
Il Ricordo unisce ciò che la vita separa.
E ti sembra una strana, inaspettata, piacevole connessione notturna, come una carezza, senza tempo

Anton Vanligt


Esattamente due anni fa, il 10 Aprile del 2012, Bi Feiyu, scrittore cinese classe 1964, tenne una conferenza presso l’Istituto Confucio di Roma, intitolata: “Essere scrittore nella Cina di oggi” e presentando la sua opera più importante: “I maestri di Tuina”, pubblicato in italiano , con la quale si era aggiudicato l’anno prima il prestigioso premio Mao Dun, vinto, prima di lui, da Mo Yan, Zhang Wei Wei, Liu Zhenyunm e Liu Xinglong.

In quella conferenza il giovane scrittore citò il connazionale Yu Hua e disse che un vero intellettuale deve riuscire a essere libero sempre, in qualsiasi circostanza e regime, come liberi erano i maestri-ciechi del massaggio tradizionale cinese (appunto il tuina), protagonisti del suo romanzo, uomini sotto le cui mani passa la Cina del terzo millennio in pieno boom economico e che corre alla velocità della luci e che, mentre tutto scorre veloce, nel loro Centro di Massaggi di Nanchino, sono come in un limbo che significa duro lavoro ma anche grande consapevolezza ascoltando corpi distrutti da un arrivismo senza misura.

Dopo la conferenza (molti mesi dopo in verità), ho letto il romanzo e ho compreso che con la scusa di raccontare storie di altri, Beifu parla di sé e di noi tutti, in un universo frustrante pieno di pregiudizi e paletti, di diseguaglianze sociali e votato alla infelicità.
Ciò che più mi colpì, fu l’attenzione per la personalità, per l’uomo, intrecciata a formare un nodo inestricabile con la storia, un rapporto che esprime in che mondo il mondo plasma l’uomo e come l’ambiente sia in grado di condizionarci. Nella sua narrazione del reale ci sono elementi di semplicità e metafora che dimostra, dietro ad ogni racconto, una profonda comprensione delle cose.

La stessa sensazione provata guardando le foto di Anja Niedringhaus, non solo quelle famose con cui aveva vinto il Pulitzer nel 2005 sulla guerra in Iraq e la strage italiana di Nassiriya, ma anche i suoi primissimi lavori, a 17 anni, sulla caduta del muro di Berlino.
Per dieci anni aveva documentato uno dei più terribili confitti di oggi, quello jugoslavo e, poi, nel 2001, era andata in Afganistan per raccontare prima la caduta talebani e poi le precarie condizioni delle persone comuni, soprattutto se donne, ottenendo, cinque anni dopo, il prestigioso Nieman Fellowship ad Harvard.

Era tornata come inviata dell’Associated Press per documentare le prime libere elezioni Afgane ed è stato uccisa nel Nord-Est del paese venerdì, e proprio dal poliziotto che doveva scortarla, pagato da uno dei tanti sinistri signori della guerra che avevano in odio il suo lavoro per la libertà e la democrazia. Nel 2005 Naja aveva ricevuto il premio di Coraggio nel giornalismo della Fondazione internazionale dei media per le donne e nel suo ultimo tweet, scritto poche ore prima di essere uccisa, aveva scritto, ricordando l’amico e collega Sardar Ahmed, giornalista afghano ucciso il 21 marzo scorso all’hotel Serena a Kabul, insieme alla moglie e a due figli: “Un tributo del cuore”, lo steso che meriterebbe lei anche solo per gli scatti con cui, nel 2010, aveva raccontato l’ingresso delle donne nel parlamento Afgano.

Nel proditorio agguato che le ha tolto la vita è stata ferita gravemente anche la giornalista canadese Kathy Gannon, che con lei lavorava dal 2001, concentrate entrambe sul dell’impatto della guerra sui civili afgani, soffermandosi sulla determinazione del governo afghano a costruire le proprie forze militari, spesso mal equipaggiate, per affrontare la lotta contro i gli estremisti. Al grido di “Allah o akbar” (Dio è grande) il killer ha falciato subito Anya e ferito la sua collega, per poi arrendersi, convinto di aver compiuto il suo sacro dovere: uccidere chi intendeva documentare l’aumento del 35% della partecipazione al voto delle donne, in una nazione in cui una donna vale meno di zero.

Secondo gli osservatori, poi, quelle che avrebbero dovuto essere le elezioni punto di svolta di un intero Paese, si sono rivelate piene più di ombre che di luce ed anche se, il voto è stato salutato da Stati Uniti, ISAF (International Security Assistance Force), ONU e, in generale, da tutta la comunità internazionale, come il simbolo di un Paese che volta pagina, dopo trent’anni di guerra civile e l’instaurazione di un regime integralista, verso quale direzione si vada non è davvero e per niente chiaro. Sono in molti fra i media anche afgani quelli che dicono che presto l’euforia passerà, la realtà dei fatti prenderà il sopravvento sulle aspettative, in un Paese che va inquadrato sempre con un occhio attento rivolto alle realtà locali, un groviglio di situazioni diverse e contrastanti, con tradizioni e culture profondamente radicate nel vivere quotidiano.

E pur volendo ammettere che la democrazia abbia raggiunto i grandi centri urbani, pur tra mille contraddizioni, la stragrande maggioranza del territorio viaggia a un’altra velocità in una dimensione parallela in cui non esiste il concetto di nazione e di presidente, ma quello di villaggio, di capo tribù e di clan, sicché difficilmente chi vincerà queste elezioni – essendo tutti i candidati legati a uno o più poteri locali – potrà rappresentare realmente il cambiamento verso la definitiva democratizzazione per la quale occorrerebbero politiche di integrazione etnica incisive a livello nazionale, una repressione decisa della corruzione e lo smantellamento dei feudi regionali.

Sicché il sacrificio di Anja resterà come quello più eroico: estremo e inutile, esempio su cui commuoversi per qualche ora e poi da dimenticare. Noi invece voglia ricordarla, tenacemente ricordarla, perché ricordare viene da re-cordis e “ripassa” dalla parte del cuore. Nel suo libro Bi Feyu dice che finché dura il ricordo l’uomo dura e più delle singole azioni vale il ricordo che ne serbiamo, profondamente.

, pur tra mille contraddizioni, la stragrande maggioranza del territorio viaggia a un’altra velocità in una dimensione parallela in cui non esiste il concetto di nazione e di presidente, ma quello di villaggio, di capo tribù e di clan, sicché difficilmente chi vincerà queste elezioni – essendo tutti i candidati legati a uno o più poteri locali – potrà rappresentare realmente il cambiamento verso la definitiva democratizzazione per la quale occorrerebbero politiche di integrazione etnica incisive a livello nazionale, una repressione decisa della corruzione e lo smantellamento dei feudi regionali.