Un ricordo per la scomparsa di un grande amico dell’omeopatia
Lo facciamo in ritardo perché grande è il rimpianto e lungo è stato il periodo di elaborazione del lutto. Lo scorso 31 gennaio è morto Emilio Del Giudice, grande fisico nucleare italiano che è stato un attivo e aperto ricercatore anche dei principi del meccanismo d’azione della medicina omeopatica.
Recentemente era stato invitato assieme al premio Nobel Luc Montagnier e al Prof Vittorio Elia presso l’Ordine dei Medici di Roma per una conferenza sul tema ‘Acqua, veicolo di informazione: nuove frontiere in medicina‘. Infatti insieme stavano ponendo le basi per comprendere la modalità di azione della medicina omeopatica, aprendo anche nuove strade da percorrere per la diagnostica e la terapia.
A una cultura umanistica e a un pensiero interdisciplinare solidi, e a comportamenti etici e sociali con aneliti (utopistici, secondo il pensiero unico dominante) verso una società più giusta, governata da una “repubblica delle lettere”, come platonicamente si esprimeva, doveva il rigore distaccato dello scienziato e la capacità di coniugarlo con la passione dell’uomo integrale.
Ci ha insegnato, attraverso le pubblicazioni, i libri e le conferenze, che la rivoluzione quantistica della fisica contemporanea non consiste nell’interpretazione di Copenaghen, stancamente ripetuta nei cliché delle riviste di divulgazione (“e perfino dalla maggioranza dei fisici”, faceva notare con un’occhiataccia, nonostante quella interpretazione fosse ormai “da mezzo secolo falsificata” dai fatti), ma nella caduta del principio galileiano d’isolamento dei corpi, che si rivela nell’entanglement quantistico e nei processi sincronici a esso collegati.
La meccanica classica si fondava sul concetto di corpo isolato, qui e ora, cosicché un sistema complesso si voleva spiegabile con l’aggregazione di monadi microscopiche isolate tra loro, interagenti sotto l’influsso di forze esterne. È il benemerito vecchio metodo riduzionistico che però, come tutti gli strumenti, non va assunto a principio metafisico, ma solo tenuto finché è utile. La spiegazione classica, materialistica e riduzionistica, valida fino all’800, entrò in contraddizione con gli esperimenti atomici all’inizio del secolo scorso, finendo per rivelarsi solo l’approssimazione valida nella scala macroscopica di una teoria fondamentalmente più vera, valida a tutte le scale, dall’infima particella all’Universo intero: la Teoria Quantistica dei Campi.
E questa teoria, oggi la più simile alla cosa, si occupa invece di “campi” appunto, ovvero di oggetti immateriali che si estendono nello spazio e nel tempo, e che nei processi di reciproca interazione, là dove il “fenomeno” si manifesta ai nostri sensi o agli strumenti (che sono protesi potenziate dei nostri sensi), solo là appaiono in forma granulare – i “quanti” del campo –, perché solo là dove avviene lo scambio di energia-impulso il baratto si svolge in unità non suddivisibili. Ma nella sua ontologia fisica invece – cioè nella realtà –, il campo non consiste di materia (inerte, resistente, localizzata ed isolata, come vuole la definizione di materia da Aristotele a Laplace), ma è un’onda infinitamente estesa nello spazio-tempo, con una “fase” di oscillazione, che ne permette in certe condizioni la “risonanza” con altri campi.
E la risonanza produce l’esaltazione dei risultati dell’interferenza, in un’armonia letteralmente cosmica. La consapevolezza della quantizzazione dei campi non è in contraddizione col realismo come nei primi anni della quantizzazione – quelli anni ’20-‘30 della “Meccanica Quantistica” – avrebbero voluto i nuovi idealisti “danesi”, educati filosoficamente dagli epistemologi del circolo di Vienna, ma al contrario ha dimostrato negli anni maturi (’40-‘50) di esigere un paradigma realistico di interconnessione (e quindi di necessaria solidarietà) globale, tutta opposta alla visione di singole particelle, atomi, cellule, corpi e… individui umani, egoisticamente collidenti in incessanti urti casuali, nei quali a prevalere infine sono sempre i più “forti”, secondo il vecchio principio della selezione naturale.
Del Giudice ha dedicato tutta la sua vita di ricercatore a mostrare come la condizione di risonanza in cui tutto l’Universo è immerso come un solo corpo e in cui, all’interno, sono immersi il rapporto tra l’uomo e la natura ed i rapporti dei singoli uomini tra loro, implichi anche scientificamente un’etica e una politica non relative, ma naturali, non individualistiche, ma comunitarie, perché così risultano profondamente iscritte nelle leggi dell’Universo, e non come vorrebbe l’ideologia. Nessun uomo si può salvare da solo, né contro o senza gli altri uomini, né contro o senza il resto del mondo animato ed inanimato.
In questa visione non c’è, se non per la scienza accademica ancella dell’industria o autoreferenziale, quella separazione insuperabile tra l’inorganico ed il vivente, che è l’ultimo frutto avvelenato del liberalismo economico e del positivismo che gli fa da spalla. Nell’ideologia della tecno-scienza baconiana, ciò che viene venduto come progresso del potere dell’uomo sulla natura non è altro che il potere esercitato da pochi uomini sui molti attraverso lo strumento della natura. Ecco allora che Emilio del Giudice ha affrontato nella sua vita un viaggio scientifico fuori da ogni condizionamento e pregiudizio, un viaggio motivato solo dalla ricerca della verità che lo ha portato dai quark e dalla cromodinamica quantistica all’omeopatia e alla memoria dell’acqua, dalla fusione fredda all’azione dei campi elettromagnetici deboli negli organismi viventi, che sono alla base dei loro complessi fenomeni di autorganizzazione. Quello di del Giudice fu evidentemente un viaggio contro corrente, che gli procurò anche ostracismi e disprezzi, ben diverso dal tran tran pacifico di colleghi più interessati alla loro carriera burocratica che alla verità e accomunati dal tacito patto “vivi e lascia vivere”.