La bellezza di Roma secondo La Capria
Di Carlo Di Stanislao
“La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori”
Alda Merini
Sono in molti a consideralo il modello ispiratore del personaggio di Jep Gambardella ne “La grande bellezza” di Sorrentino e Contarello e in tanti a ritenerlo fra i maggiori scrittori del nostro novecento. Ora Raffaele La Capria, napoletano di Roma, autore di oltre venti romanzi a cui Ferito a morte, con cui, nel ’61, ha vinto il Premio Strega e varie sceneggiature, in particolare quelle con Francesco Rosi: Le mani sulla città (1963), Uomini contro (1970) e Cristo si è fermato a Eboli (1979), pubblica per Mondadori “La bellezza di Roma”, uscito in liberia a fine febbraio ed in cui, con gli occhi dello scrittore, la Capitale Eterna disdpiega le sue mille contraddizioni, ma anche la sua intrinseca capacità di sedurre e di artisti ed idee, in un ritratto appassionato, ma anche un po’ sarcastico, che si chiude con una “modesta proposta” per donare alla città più bella del mondo un nuovo splendore. Un viaggio che non si limita a Roma e ai romani, ma che ci riguarda tutti: perché “tutte le strade conducono a Roma e qui si perdono”.
Partito da Napoli intorno ai trent’anni per trovare lavoro alla Rai, Raffaele La Capria ha da quel momento scelto Roma come sua seconda patria. E anche i suoi libri su Napoli li ha scritti da lì, grazie al filtro della distanza ed influenzato dalla città de La Dolce Vita dalle sue infinite contraddizioni. A leggerlo ora, dopo il film di Sorrentino-Servillo-Contarello, il libro ci rivela più che mai un legame stretto tra film e ispirazione letteraria, senza parlare del look da dandy partenopeo di Jep Gambardella, del suo elegante disincanto, né il suo sguardo rassegnato sul degrado morale che lo circonda. “È vero – ha raccontato La Capria -, che tra me e Sorrentino esista un rapporto artistico. Venne a propormi l’idea di un film tratto da Ferito a morte. Ero d’accordo, avevo rifiutato tante altre offerte, ma quella volta ho subito pensato che lui potesse essere il regista adatto. Si mise a scrivere, insieme a qualcun altro, ma poi, quando leggemmo la sceneggiatura finita, decidemmo insieme che non corrispondeva alle nostre intenzioni, che non era quella che avevamo immaginato, che veniva fuori un mondo diverso da quello del libro. A Napoli certi personaggi rischiavano di diventare macchiette”. Non ci fu tempo di riflettere sui possibili interpreti: “Non sarebbe stato facile trovare volti adatti, il protagonista del libro ha 25 anni, ci sarebbero voluti attori giovanissimi. Sorrentino aveva altri impegni, il progetto decadde”.
Ma se l’impresa della trasposizione cinematografica è rimasta nel cassetto, l’esperienza della collaborazione ha lasciato un’eredità importante, “una congenialità che riguarda la particolare struttura narrativa di Ferito a morte e quella dei film di Sorrentino”. Eppure, va detto, leggendo il libro di La Capria, è evidente quanto diversa sia la sua Roma, quella che l’accolse da giovane, arrivato, come Jep Gambardella da Napoli sull’onda di un grande successo letterario (“Ferito a morte” era stato pubblicato nel 1961): “Quella che trovai io era una capitale ancora nello spirito degli Anni 50, simile a quella che Fellini raccontava nella Dolce vita. Una città tutta diversa da come è adesso, molto più vivace, culturalmente avanzata, in tutti i settori, teatrale, cinematografico, letterario… Oggi Roma ha perso quei connotati, il livello si è abbassato. E il fenomeno non riguarda solo l’Italia, in tutto il mondo scarseggiano le grandi personalità e le società hanno smesso di produrre quel tipo di fermento culturale”. Invece, nei nostri giorni, come racconta La grande bellezza, “la rassegnazione impera su tutto, viviamo in un mondo al di sotto delle nostre aspettative”. Il senso dominante, quello che attanaglia Jep Gambardella lungo il suo infinito girovagare, è quello dello spreco: “Sorrentino ha ragione a pensare che , dai fasti della dolce vita, si sia passati a una borghesia degradata, un consesso sociale che abbia perso il suo splendore, diventando grigio, opaco. La Roma di oggi è questa, non quella che conobbi io. La vita non è più dolce, ma mediocre, e i personaggi che la abitano sono tutti come diminuiti”.
Entrambi, La Capria e Sorrentino, sanno che ha ragione Pessoa che scrive: “Il poeta è un fingitore/ che finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente.” Ed entrambi, in misura e con mezzi diversi, sanno trtasmettere emoziono, poiché hanno imparato, nel loro cuore meridiano, nel calore di un Sud mai smemorato, che Ettore che saluta Andromaca prima di affrontare il combattimento mortale non è soltanto un personaggio, è un’emozione trasmessa, come Didone innamorata di Enea che l’abbandona e perciò cercherà la morte nel fuoco. Perché, in fondo, tutta la storia dell’arte, letteratura, pittura, musica e via dicendo, fino al cinema, è la storia di emozioni trasmesse attraverso i secoli, l’unica scienza vera delle emozioni, cioè delle passioni, di ciò che gli uomini hanno sentito, amato, sofferto, sperato, sognato nel corso dei secoli. Ed edificato, talvolta, con spettacolari capolavori immortali, come accade, per esempio, e sorprendentemente e più che altrove, a Roma.