Il Dalai Lama a Livorno
Di Carlo Di Stanislao
“Tutti gli Esseri Senzienti desiderano la felicità e non vogliono soffrire. Questa è una cosa che accomuna tutti, uomini e animali, ed è un desiderio che sorge senza alcuno sforzo. In questo senso dunque tutti gli Esseri Senzienti sono uguali. Tuttavia, gli esseri umani sono dotati di una particolare intelligenza per la quale possono prevedere il risultato delle loro azioni”
Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama del Tibet
“Di quell’insegnamento di cui con sicurezza potete dire che conduce all’assenza di passioni e non alle passioni; al distacco e non alla prigionia; al venir meno dei successi mondani e non al loro crescere; alla frugalità e non alla cupidigia; all’appagamento e non all’inquietudine; alla solitudine e non alla compagnia; all’energia e non all’inerzia; al prender piacere nel bene anziché nel male, di quell’insegnamento con certezza potete anche affermare: Questa è la norma. Questa è la disciplina. Questo è il Messaggio del Maestro”
Conze
Che cosa si intende per Buddhismo? Una definizione coerente e comprensibile del termine, che tenga conto di tutte le sue implicazioni spirituali, filosofiche e storiche, può essere tentata riconducendo, con intento comparativo e chiarificatore, l’idea del Buddhismo all’interno di ambedue i generi ideali di ‘religione’ e ‘filosofia’, così come si sono andati determinando nel corso della storia della cultura occidentale. Ogni riduzione semplicistica all’uno o all’altro genere risulterebbe incoerente perché, di fatto, dal nostro punto di vista il Buddhismo non è una religione in senso stretto, in quanto priva dell’idea di un ‘dio-persona’ e quindi di una sua teologia; né si può semplicemente ricondurre all’ambito razionale e dialettico che fa da sfondo alla più generale idea di filosofia, in quanto latore di un concreto messaggio salvifico che implica un atteggiamento spirituale ‘religioso’ piuttosto che ‘laico’. D’altro canto, la comprensibilità della Weltanshauung buddhista da parte del lettore occidentale, che non abbia confidenza con il pensiero e la cultura del Lontano Oriente (India, Cina, Indocina e Giappone), risulta direttamente connessa alla possibilità di effettuare una comparazione attraverso la riduzione ai suddetti generi ideali. Diversa, evidentemente, potrebbe essere una conoscenza del Buddhismo dall’interno, ma la via a tale conoscenza passa attraverso un radicale ripensamento della propria vita, una ‘conversione’ esistenziale piuttosto che intellettuale, che è possibile maturare soltanto con una disciplinata pratica meditativa.
Il Dharma (sanscrito, pali Dhamma, la dottrina, la legge), l’insegnamento tramandato dal Buddha, non mira a convincere l’ascoltatore, non intesse discorsi astratti, bensì fornisce chiare indicazioni metodologiche, etiche ed esistenziali. Il dolore non ha bisogno di essere dimostrato, né occorre convincere qualcuno sull’opportunità di far fronte ad esso. La via alla salvezza non passa attraverso una conoscenza intellettuale o sapienziale. Per il buddhista è infinitamente più importante sperimentare l’impermanenza e la non-sostanzialità dell’io-individuale per mezzo di una corretta postura del corpo e di una giusta concentrazione, piuttosto che far ricorso alla ragione e alla parola. Chi sa tace. Il dire, il logos, ha una funzione esclusivamente terapeutica: può ‘servire’, ‘essere utile’, stimolare qualcuno affinché progredisca lungo il sentiero della salvezza, ‘guarisca’ almeno in parte dalla sofferenza. Leader politico e spirituale del popolo tibetano, nonché la massima autorità spirituale della scuola Gelug del Buddhismo Tibetano, le parole Dalai Lama vengono normalmente tradotte come “Oceano di Saggezza”.
Tenzin Gyatso è una voce tra le più ascoltate del pacifismo mondiale, un personaggio affascinante, che ha saputo guadagnare rispetto e considerazione in tutto il mondo. Nato nel 1935 e residente in esilio in India dal 1959 in seguito all’occupazione cinese del Tibet (1949 – 1951), Tenzin Gyatso ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1989 per la resistenza non violenta contro la Cina. Negli ultimi anni sono stati moltissimi i ibri pubblicati dalla guida spirituale tibetana, di cui molti sono stati tradotti in Italiano. Il 14 e 15 giugno prossimi, presso il Modigliani Forum di Livorno, sua Santità Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama del Tibet, terrà una serie di conferenze sugli insegnamenti derivanti dal buddismo tibetano. Tutte le informazioni possono essere raccolte sul sito ufficiale: http://www.dalailama.it, dov’è possibile anche acquistare i biglietti, in vendita dal 13 dicembre. Nell’incontro previsto a Livorno, egli riprenderà il discorso iniziata a Milano nel giugno dello scorso anno, inerente la “Felicità Interiore” e basati sui cosidetti diciotto insegnamenti:
- Tieni sempre conto del fatto che un grande amore e dei grandi risultati comportano un grande rischio.
- Quando perdi, non perdere la lezione.
- Segui sempre le 3 “R”: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni.
- Ricorda che non ottenere quel che si vuole può essere talvolta un meraviglioso colpo di fortuna.
- Impara le regole, affinché tu possa infrangerle in modo appropriato.
- Non permettere che una piccola disputa danneggi una grande amicizia.
- Quando ti accorgi di aver commesso un errore, fai immediatamente qualcosa per correggerlo.
- Trascorri un po’ di tempo da solo ogni giorno.
- Apri le braccia al cambiamento, ma non lasciar andare i tuoi valori.
- Ricorda che talvolta il silenzio è la migliore risposta.
- Vivi una buona, onorevole vita, di modo che, quando ci ripenserai da vecchio, potrai godertela una seconda volta.
- Un’atmosfera amorevole nella tua casa dev’essere il fondamento della tua vita.
- Quando ti trovi in disaccordo con le persone a te care, affronta soltanto il problema attuale, senza tirare in ballo il passato.
- Condividi la tua conoscenza. E’ un modo di raggiungere l’immortalità.
- Sii gentile con la Terra.
- Almeno una volta l’anno, vai in un posto dove non sei mai stato prima.
- Ricorda che il miglior rapporto è quello in cui ci si ama di più di quanto si abbia bisogno l’uno dell’altro.
- Giudica il tuo successo in relazione a ciò a cui hai dovuto rinunciare per ottenerlo.
A Livorno sua Santità sarà ospite dell’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia e dopo una visita privata e la benedizione del terreno dell’associazione Sangha onlus, dedicherà la giornata di sabato 14 giugno al commento di un testo di Nagarjuna, il più importante filosofo buddhista vissuto nel I° secolo d.C., che fornisce in forma laica e poetica una presentazione dell’intera pratica del sentiero buddhista. Il secondo appuntamento, nella mattinata del 15 giugno sarà dedicato ad un’iniziazione di Avalokiteshvara, il Buddha della compassione e, nel pomeriggio, infine, una conferenza pubblica sull’importanza dello sviluppo di etica e compassione e della promozione dei valori umani e delle qualità interiori, anche come antidoti alla crisi. Al di là delle proprie convinzioni religiose o spirituali, interessanti sono gli insegnamenti di Tenzin Gyatso sul concetto, ad esempio, di vacuità, al cui fondamento è la consapevolezza che vi sia una disparità fondamentale tra come noi percepiamo il mondo, inclusa la nostra stessa esistenza, e l’effettiva realtà dei fenomeni. Nella nostra esperienza quotidiana tendiamo a relazionarci con il mondo e con noi stessi come se entrambe le entità fossero dotate di una definibile, duratura e consistente realtà. Per esempio, se prendiamo in esame la nostra concezione del Sé, troveremo che siamo propensi a credere che esista qualcosa di solido e permanente al nostro interno, indipendente dagli elementi esterni, sia fisici sia mentali. La filosofia della vacuità afferma invece che questa visione non è solo un errore madornale ma costituisce anche la base per l’attaccamento, il senso del possesso e lo sviluppo dei nostri innumerevoli pregiudizi.
Secondo la teoria della vacuità, credere nell’esistenza di una realtà intrinseca e indipendente da altri fattori è del tutto sbagliato. Ogni cosa ed evento, siano essi mentali, materiali o anche concetti astratti come l’idea del tempo, sono privi di un’esistenza intrinseca e indipendente. Se anzi, la possedessero, vorrebbe dire che sarebbero qualcosa di completo in se stesso, ma questo significherebbe che niente potrebbe interagire e influenzare fenomeni del genere. Noi sappiamo però che esiste sempre una causa che produce un effetto: metti la chiave nel cruscotto di una macchina, il motore si accende e la benzina comincia ad essere bruciata. In un mondo composto di cose indipendenti e autonome le une dalle altre, fatti del genere non potrebbero accadere. Io non potrei scrivere su di un foglio di carta e voi non potreste leggere le parole di questa pagina. Quindi, dal momento che esiste un’interazione reciproca, dobbiamo concludere che non vi è nulla di indipendente in se stesso, nonostante noi possiamo pensare in questo modo. In effetti la nozione di un’esistenza intrinseca e indipendente è incompatibile con il rapporto causa-effetto, poiché questo implica dipendenza reciproca tra i fenomeni. Mentre, al contrario, qualsiasi cosa possieda un’esistenza indipendente dovrebbe essere indipendente e completa in se stessa. Ogni fenomeno è in continua relazione con altri fenomeni e non vi è alcuna entità fissa e immutabile. Le cose e gli eventi sono “vuoti”, nel senso che non possiedono alcuna intrinseca realtà immutabile e indipendente. Questa fondamentale verità su come “le cose sono realmente” viene chiamata nei testi buddhisti “vacuità” o shunyata, in sanscrito.
Di notevole interesse, poi, quanto contenuto nella collana avviata dall’editore Pratiche nel 1996, tutta basata sulla forma più semplice del mahayana, cioè sull’apprendimento della meditazione, definita come “addestramento alla concentrazione e all’analisi, che esamina un oggetto e l’approfondisce, fino a superare l’io”. Questo esercizio presuppone una disciplina, che si ottiene praticando la comune moralità buddhista. Come primo risultato si supera l’idea che le cose abbiano una loro esistenza intrinseca e si sviluppa la compassione per tutti gli esseri travolti nella sofferenza e nella morte. Secondo risultato sarà la percezione della vacuità d’ogni cosa e l’aspirazione a raggiungere l’illuminazione per liberare tutti gli esseri asserviti. A questo punto si sarà attinta la sapienza. Per prepararsi agli insegnamenti di Livorno, consigliamo poi, come suggerisce Emelire Zolla, la lettura del libro “La Via del Buddhismo Tibetano”, edito da Mondadori e tratto da nove lezioni impartite a Londra nel 1988, rassegna completa delle dottrine offerte in Tibet, con un capitolo sul tantra che per la prima volta porge l’intera estensione di insegnamenti finora coperti dal segreto. Uno degli ascoltatori domanda come mai questo occultamento sia cessato. Il Dalai Lama risponde sì, ma non risolve la questione. Per cui credo che il disastro della fuga dal Tibet, la lenta erosione del patrimonio di conoscenze segrete in seguito alla dispersione, all’impossibilità crescente di osservare le regole antiche, abbiano spinto il Dalai Lama e i suoi consiglieri a versare tutto il tesoro esoterico nelle orecchie quasi sorde degli occidentali.
Tantra vuol dire continuità: il filo rosso della vita. Continua è la coscienza, che di solito, sviluppandosi, si contamina producendo il divenire o samsara, ma eccezionalmente attinge la vita spirituale del nirvana: due manifestazioni della continuità . Nel tantra si passa dalla fase della sapienza, che indugia sulla vacuità dei fenomeni, a una fase in cui si esamina questa vacuità in tutti gli aspetti che assume nella nostra coscienza. Diciamo che i fenomeni hanno convenzionalmente una loro esistenza; del resto, esiste forse il tempo nel quale li situiamo? Il passato è trascorso, il futuro non c’è, il presente è una linea infinitesimale. Se esso è indivisibile, non lo distinguiamo da passato e futuro; se è divisibile non esiste un presente fra passato e futuro. Anche il presente, come ogni fenomeno, ha un’esistenza convenzionale. Nel sistema tantrico del buddhismo vajra, entra in gioco una sostanza fisiologica sottile sparsa nel corpo, che si chiama bodhicitta e l’essenza della buddhità è una chiara luce che si trova alla scaturigine sottile dell’uomo. Per coglierla dobbiamo scartare l’attenzione comune, che dipende da una stretta vigilanza, anzi dobbiamo eliminare ogni processo conscio del pensiero. Il tantra ci trasferisce sul piano sottile attraverso lo yoga delle correnti di energia, stabilendo la non concettualità e generando la beatitudine.
In genere la chiara luce ci si presenta al momento d’addormentarci o svegliarci, nello starnutire, nello svenire e nell’orgasmo sessuale, nel quale però si eviti di emettere il seme. Occorre anche disciogliere il bodhicitta, destando il desiderio erotico che provocherà uno stato sul quale si fisserà l’attenzione e allora si sarà pervasi di beatitudine. Il Buddha per insegnarlo ci si presenta abbracciato alla consorte. Il praticante si immagini nella stessa condizione. c’è una fase ulteriore: ci si immaginerà di essere dè i e si sbandiranno dalla mente i dualismi, bene male, pulito sozzo. Si avrà la forma di un dio e si sarà consapevoli della sua vacuità e le due consapevolezze formeranno un’unità, la chiarezza visualizzerà il dio come fosse noi stessi e la profondità ne comprenderà il carattere vacuo. Per avviarsi a questo stato si entrerà in un contatto via via più intimo con una donna che s’ immaginerà divina, si ascolterà la nostra voce che recita i mantra come se non fosse nostra e alla fine del suono si sarà liberati. Ma esiste un Tantra Yoga Supremo, che concepisce ogni fenomeno come scaturito dalla chiara luce o mente originaria. La scuola dzog chen userà la chiara mente, mentre ogni altra scuola usa i processi mentali grossolani. Si attinge infine un’unione intima della saggezza come consapevolezza della vacuità d’ogni fenomeno e dell’esperienza di beatitudine che è simile, ma non è identica al piacere sensuale. Piuttosto il tantrista saprà penetrare nell’essenza della morte, poiché prima della decomposizione, dopo la morte accertata, si vive nella chiara luce e si assume un corpo sottile. Ma il seguace del tantra, dopo la meditazione, continua a praticare, ha rituali perfino per orinare e defecare, per qualsiasi attività . Saprà di essere giunto al culmine quando discernerà nitidamente il corpo sottile stando in uno stato di morte che gli dischiude gli scrigni dei massimi tesori. Ma la somma perfezione è pressoché impossibile da spiegare.
In estrema sintesi si può dire che, quando nel Buddhismo si parla di “ trasformazione della mente” ci si riferisce al metodo di trovare l’antidoto appropriato che si contrappone al difetto mentale corrispondente. Ad esempio se abbiamo molta “animosità dovremo cercare di contrastare questo difetto mentale con un atteggiamento di gentilezza. Tuttavia, la gentilezza, la pazienza e gli altri antidoti, benché permettano di contrastare temporaneamente l’azione negativa, non sono ancora in grado di estirpare la causa principale di tali azioni. Infatti, poiché tutte le nostre azioni negative sono causate dalla visione distorta della realtà, si comprende che l’antidoto supremo a tutte le afflizioni mentali, sarà un tipo di saggezza che elimina l’ignoranza fondamentale presente in noi. In questo contesto per “ Ignoranza “ si intende la non-conoscenza della realtà ultima dei fenomeni, i quali sono fondamentalmente vuoti ( o privi ) di esistenza intrinseca ed autonoma. Si tratta come di un “errore” che noi compiamo spontaneamente da tempo incalcolabile. In realtà, tutti i fenomeni che percepiamo, noi stessi compresi, dipendono da cause e condizioni e non nascono da soli per proprio potere intrinseco.
Allo stesso modo, tutte le nostre esperienze di felicità e sofferenza, non nascono dal nulla, ma dipendono anch’esse da precise cause e condizioni. L’analisi deve basarsi su ragioni valide, ovvero sia quelle derivanti dalla osservazione delle due verità, la Verità Ultima e la Verità Convenzionale. Cosa sono queste due verità ? La verità convenzionale è semplicemente tutto ciò che noi percepiamo con i nostri sensi ordinari senza che venga fatta alcuna analisi. Questo tipo di verità, benché si riferisca a cose reali di questo mondo che hanno una loro funzione, è comunque un tipo di visione illusoria, poiché se noi andiamo ad analizzare la cosa presa in esame, in realtà non riusciamo a trovarla. Non riusciamo a trovare quell’entità sostanziale ed intrinseca così come ci appare ai nostri sensi. Dunque questa “ Vacuità” (o assenza) di esistenza intrinseca dei fenomeni corrisponde alla Verità Ultima degli stessi. Questa Vacuità non è qualcosa che ha inventato il Buddha, ma è la semplice natura ultima delle cose che è così da sempre. Questo ragionamento ci fa comprendere che tutte le cose esistono in modo interdipendente le une con le altre, pertanto possiamo affermare che i fenomeni:
- Non si producono da sé (cioè da causa intrinseca)
- Non si producono senza causa.
- Non si producono da altro, cioè da una causa “ permanente” come un essere superiore (Dio)
Tutte le cose materiali ad esempio vengono all’esistenza grazie ai cinque elementi naturali. A seconda di come tali elementi si combinano fra loro si avranno fenomeni differenti. Ciò è possibile perché ogni elemento ha la caratteristica che lo contraddistingue, ad esempio la terra ha la caratteristica di solidità, l’acqua quella di fluidità e così via. Inoltre, la tendenza dell’uomo è quella di illudersi che le cose rimangano inalterabili e immutevoli nel tempo. Prendiamo ad esempio il fiore che ho qui vicino. Fra qualche giorno esso sarà completamente appassito ed avrà tutto un altro aspetto. Però il suo cambiamento non avviene tutto d’un colpo ma esso subisce un cambiamento graduale, istante per istante, anche se noi non riusciamo a percepirlo. Il cambiamento grossolano che noi vediamo a distanza di tempo è possibile solo a causa della “impermanenza sottile “ che è appunto il mutare istantaneo delle cose. Pure le montagne ad esempio, che appaiono così solide e permanenti, in realtà anche loro mutano istante per istante. Infatti possiamo vedere il loro mutamento nell’arco di secoli, ma tale mutamento è avvenuto in modo continuo, attimo dopo attimo.
Anche il tempo cronologico se ci pensiamo bene è solo un’illusione. Il passato non esiste più perché è morto, il futuro deve ancora venire e il presente è qualcosa che non si può afferrare perché costituisce un confine tra passato e futuro. Non dobbiamo credere che la sofferenza o la felicità vengano da fuori, dall’esterno di noi stessi, poiché è sempre la nostra “forza interiore “ che predomina sulle circostanze esterne della vita. La dimostrazione di questo fatto è che di fronte ad una stessa situazione, le persone reagiscono in modo talvolta molto differente. Dunque è la nostra “ Coscienza” che fa l’esperienza di felicità o sofferenza.
In definitiva, sotto il profilo filosofico, il problema centrale del pensiero buddhista è la sofferenza umana, la conoscenza della sua causa, l’individualità, e la cessazione della sofferenza attraverso l’eliminazione della causa. Dal momento che tale questione non è inserita in un contesto teologico, né fa riferimento alla rivelazione di una divinità da accettare per fede, da buoni occidentali ci aspetteremmo che venga affrontata piuttosto in termini ‘filosofici’, per mezzo di una teoresi laica e razionale. Le nostre aspettative saranno corrisposte soltanto in parte. Facendo ricorso alle categorie filosofiche occidentali, la definizione più calzante per il Buddhismo potrebbe essere: pragmatismo dialettico con tendenze psicologiche. Esso si presenta si presenta innanzitutto come un specie di ‘pragmatismo radicale’: le speculazioni intellettuali e la ricerca teoretica fine a sé stessa sono considerate uno spreco di tempo prezioso e in quanto tali possono essere d’intralcio al conseguimento del Nirvana. La bontà di un metodo filosofico ed epistemologico si misura esclusivamente dai suoi risvolti ‘pratici’. Vero è quanto mi fa stare meglio, ossia mi fa progredire lungo la via alla salvezza. Tant’è che nel pur ricchissimo vocabolario buddhista, non troviamo un termine che corrisponda al nostro di ‘filosofia’. Per un orientale la parola filosofia si traduce meglio in ‘consigli per agire’, ‘tecniche di comportamento’, ‘sperimentazione esistenziale’.
Una lettura essenziale per il neofita è anche Il Buddhismo. La sua essenza e il suo sviluppo del maestro Conze, edito a Verona da Cortina nel 1955, in cui si chiarisce che nel corso della storia del Buddhismo si arrivò alla consapevolezza che ogni affermazione in quanto tale è falsa. Falsa per il fatto stesso di essere stata espressa, falsa perché affermando qualcosa nega qualcos’altro, falsa perché ‘inutile’. La ‘dialettica degli opposti’ nella filosofia occidentale è presente sia con esiti razionalisti (Eraclito, Zenone, Hegel) che tendenti al misticismo, attraverso il superamento delle categorie intellettuali (Meister Eckart, Cusano, Bruno). Nel Buddhismo (in particolare nella tradizione Mahayana, il Grande Veicolo) essa viene spinta, di proposito, fino alle sue estreme conseguenze: il paradosso, la contraddizione, il nonsense. La dialettica è in funzione del pragmatismo, ossia diventa lo strumento attraverso il quale ragione ed intelletto confutano sé stessi, si riducono al silenzio favorendo concentrazione ed imperturbabilità. Gli esiti di questo metodo sono assai simili a quelli dello Scetticismo di Pirrone d’Elide. Le aporie della ragione dialettica, il fatto che di ogni cosa si può affermare che essa è e non è, o negare che essa sia o non sia, legittimano il ricorso all’epokhé, la sospensione di ogni giudizio.
Tutte le cose sono ugualmente in-conoscibili, in-differenti, im-ponderabili e in-decise: l’unica affermazione possibile è una negazione non-sintetizzabile, ovvero una negazione assoluta. In termini logici e linguistici essa si può esprimere premettendo una particella negativa tanto all’affermazione quanto alla negazione di uno stesso predicato, per esempio: “né questo cane è Buddha, né questo cane non è Buddha” non confida nella ricerca intellettuale. L’unico modo per seguire la sua filosofia significa vivere come Pirrone. E per far ciò, occorre che ciascuno muoia a sé stesso, annichilisca la propria individualità. È un atteggiamento ‘filosofico’ assai simile a quello incarnato dal Buddha.
Gli esiti estremi della dialettica buddhista trovano espressione nei cosiddetti koan della scuola Zen Rinzai, enigmi paradossali che il maestro rivolge al discepolo affinché maturi da solo il Risveglio (giapponese Satori; sanscrito Nirvana; pali Nibbana): “Qual è il suono di una sola mano?”, “Cos’è Mu?”, “Qual era il tuo volto prima che tu nascessi?”, “Che differenza c’è tra Buddha e questo cane?”. Si tratta di una sorta di arte maieutica che tende ad escludere ogni risposta razionale, che induce il discepolo ad abbandonare le normali categorie di giudizio, ad andare oltre sé stesso.