Il Belgio dice sì alla dolce morte senza età

Di Carlo Di Stanislao

Salvador Dali Bambino malato autoritratto

Io reputo che ufficio del medico sia di rendere la salute e di alleviare le sofferenze e i dolori, non solo quando questo sollievo può condurre alla guarigione, ma anche quando può servire a procurare una morte dolce e calma. Al contrario i medici si fanno una specie di scrupolo e di religione di tormentare ancora il malato allorquando la malattia è senza speranza; a mio avviso invece, essi dovrebbero possedere tanta abilità da addolcire colle loro mani le sofferenze e l’agonia della morte
Francis Bacon, Sull’utilità e il progresso del sapere, 1605

La maledizione del dover morire dovrà diventare una benedizione: che si possa ancora morire quando vivere è insopportabile
Elias Canetti, La provincia dell’uomo, 1973

L’incubo non è nella morte, ma nel morire cui ci condannano
Luca Coscioni, Il maratoneta, 2002

Uno dei personaggi del best seller di Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, afferma: “Gli adulti hanno un rapporto isterico con la morte, diventa un affare di stato, fanno un sacco di storie, e dire che è l’evento più banale del mondo”.
Ora il Belgio, un paese nordico e con troppo religiosocentrico, ha approvato a larga maggioranza la legge che autorizza l’eutanasia anche per i bambini malati terminali, si sono riaperte le mille polemiche su un tema estremamente difficile, soprattutto se riguarda bambini. I leader delle comunità cristiane, musulmane ed ebree del Paese che è il primo ad autorizzare l’eutanasia senza limiti d’età, hanno espresso “grande preoccupazione sul rischio” di rendere l’eutanasia “una routine” e l’arcivescovo Andre-Joseph Leonard si è espresso in modo molto critico, mentre Christian Brotcorne, capo del gruppo centrista francofono in parlamento, ha chiesto polemicamente che “cosa succederebbe se i genitori fossero in disaccordo tra di loro, o se uno psichiatra dovesse credere che il bambino non è in grado di capire la situazione”. I sostenitori della legge, invece, ritengono che questa permetterebbe di liberare bambini malati di terminali da sofferenze senza fine, rispettando il loro diritto a una morte dignitosa. Nella vicina Olanda l’eutanasia per i minori è già ammessa, ma a partire dai 12 anni compiuti. In Belgio, invece, da ora in poi, accertato che la malattia sia alla fase terminale e con sofferenze fisiche non alleviabili, sarà uno psicologo esterno all’equipe medica curante a valutare la “capacità di giudizio” del bambino, in grado di comprendere cosa significhi morire. A chiederlo dovranno essere gli stessi bambini, senza limiti di età e in accordo con i genitori.

La morte è sempre stata riguardata dall’Uomo come un destino crudele dei viventi; la sua inesorabilità ha fatto dubitare dell’esistenza di un Dio Creatore e Provvidente; poiché, come scriveva F. D. Guerrazzi, “o la Vita è un male, e perché ci fu data?, o la Vita è un bene, e perché ci vien tolta?”. Essa sola, la morte,è stata in realtà considerata, nel suo significato filosofico, come l’appannaggio della specie nostra: gli uomini, non gli animali, notò argutamente il Faguet, si dicono “mortali”, e “Immortali” dicono esclusivamente i loro Dei. Né vale che nel suo ottimismo un Poeta settecentista abbia cantato: “Non è ver che sia la morte – Il peggior di tutti i mali”: il fatto sta che davanti allo spettacolo del trapasso, ognuno prova un istintivo sgomento. Certi filosofi, psicologi e fisiologi ci hanno voluto porgere un conforto, assicurandoci che il morire non arreca pena; ed anni fa, essendo di moda disputare su questo tema, a proposito della teleologia dell’Evoluzione il grande naturalista inglese Alfredo Russell Wallace, da convinto spiritista qual era, assicurava che il passaggio da vita a morte è quasi indifferente! Egli parlava, è vero, specialmente degli animali, affermando che “la morte la più violenta e la più subitanea è per essi anche la migliore”, sia che cadano sotto i denti di un carnivoro, sia che, ancora peggio, siano sacrificati dall’Uomo, cioè dalla più crudele fra le creature. Ma la tesi era un po’ ardita sotto l’aspetto psicologico, giacché, se già ci è difficile capire quello che avviene in un’altra coscienza umana e perfino nella nostra, siamo poi del tutto incapaci di penetrare nella coscienza animale, se non per induzione analogica.

La questione introdotta col termine di eutanasia dal dal filosofo inglese Francesco Bacone, agli inizi del secolo XVII e praticata, con riserve, in Grecia e nel mondo latino, si è fatta via via più intricata di pari passo con l’aumento delle capacità della tecnica, la quale ha consentito la realizzazione di strumenti in grado di sostituire le funzioni vitali di un individuo. È evidente che nel momento in cui a funzionare sia solo l’apparato organico dell’individuo e non quello cosciente sorge il problema se abbia maggiore importanza la vita biologica (vita dell’organismo) o la vita biografica. A tale proposito, come comportarsi nel caso dei bimbi anencefalici? Cosa dire di coloro che sono affetti da malattie a carattere degenerativo? Ad esempio: il malato di Alzheimer, il quale si allontana pian piano dal una propria autocoscienza può essere forse considerato meno in vita di un individuo sano? La libertà di scelta e la qualità della vita sono gli argomenti a favore, la sacralità della stessa generano quelli contro.

Contrario all’eutanasia si è dichiarato anche il Consiglio d’Europa, che nel 1999 si è pronunciato a favore del mantenimento del divieto assoluto di porre intenzionalmente fine alla vita dei malati terminali: ”Il desiderio di morire espresso da un malato incurabile o da un moribondo – si legge nel documento – non può mai costituire una valida base giuridica perché qualcuno ne causi la morte”. Per il Consiglio d’Europa, la priorità deve essere data invece alle cure palliative, in particolare alla somministrazione di farmaci antidolorifici. Ciò non toglie che lo stesso Consiglio d’Europa abbia investito della questione un’apposita commissione di studio, con lo scopo di produrre linee guida per una possibile regolamentazione in materia. Uno dei punti in discussione è infatti il valore legale da attribuire ai cosiddetti “testamenti biologici” o “testamenti in vita”, ovvero alle dichiarazioni effettuate dalla persona in pieno possesso delle proprie facoltà mentali in merito a un’eventuale situazione di malattia gravemente invalidante o con prognosi infausta.

Il testamento in vita non ha, al momento attuale (2005), valore legale in Italia, benché il Comitato nazionale di bioetica, organo consultivo del Parlamento, si sia espresso a favore di un suo riconoscimento. E, come si vede, in vari Paesi ormai (Lussemburgo, Olanda, Belgio, Nord Australia e vari Stati del Nord Amerca) si sono creati forti movimenti che rivendicano il rispetto della libertà del paziente di disporre della propria vita e di decidere la propria morte, come massima espressione dell’autonomia di scelta dell’individuo, indipendentemente dall’età ed in base solo alla completezza del giudizio. Costoro, in generale, considerano la malattia inguaribile o la morte dolorosa come una assurdità da rifiutare, un tormento inutile da evitare. Per questo i fautori dell’eutanasia libera fanno leva su di una presunta “qualità” della vita. Ma l’argomento per alcuni (e fra questi l’illuminato Card. Martini) non tiene affatto: presuppone che alcuni abbiano il diritto di giudicare se la vita di altre persone sia o non sia ancora valida e utile per la società. Né solo di giudizio si tratta: l’eutanasia è sentenza di morte. In radice sta l’inaccettabile confusione tra la “dignità” e la “qualità” della vita umana. La vita umana non è degna perché ha certe qualità fisiche o psichiche; al contrario, proprio perché la vita ha una sua interiore dignità, ha un suo significato immanente, occorre fare di tutto per qualificarla, per riempirla di beni, a costo anche di rinunciare noi stessi a qualche cosa di tempo, di salute, di benessere in favore dei fratelli.

In definitiva, come si vede, il problema non è legislativo ma culturale, dove è in questione la visione veramente e pienamente umana della vita e della morte. Nel celebre Il bambino malato autoritratto a Cadaques di Salvador Dalì (immagine di apertura: 1923, Olio e tempera su cartone, 57X51cm, The Salvador Dalì Museum – Saint Petersburg), lo sguardo greve e sognante del malatino indicano una sofferenza che va al di là della capacità umana della sopportazione. A tal proposito Dalì scrive: “Alla fine non ero altro che uno scheletro, un mostro senza corpo, armato solo di una mano, di un occhio e di un cervello”, ma anche in quel caso voleva vivere quello scheletro, superare la malattia detta inguaribile e maturare attraverso la sofferenza. Ma questo riguardava lui e ogni storia è personale, nella vita e nella morte.