Carne da divorare

A cura di: Carlo Di Stanislao
Carne da dicorare

La Cina di cui mi parlava non era quella del primo arrivato né tanto meno quella delle riviste patinate. Era un mondo perduto di cui lui aveva trovato la chiave… Era il paese dell’alcol e dei deserti di ghiaccio, della sabbia infuocata e dei Buddha viventi, delle strade accidentate e delle luci velate, un mondo in cui ci si poteva perdere e mai più ritrovarsi
Luc Richard

Se alla tv cinese vedi operai sorridenti che parlano con i giornalisti, stai certo che sei sintonizzato sul canale nazionale di Stato. Se invece vedi una top model che si protegge dai flash dei fotografi scendendo dalla scalinata dell’Opera, con un orologio svizzero al polso, allora sei su un canale di Hong Kong
Guy Delisle

Il fascino unico che la Cina esercita su coloro che l’avvicinano può essere paragonato all’attrazione tra i sessi. Di fatto si basa su una realtà elementare: dal punto di vista occidentale, la Cina è semplicemente il polo opposto dell’esperienza umana. Le altre grandi civiltà sono morte (Egitto, Mesopotamia, America precolombiana) o sono troppo vicine a noi (Islam, India) per dare luogo a un contrasto così assoluto, a un’originalità così radicale e illuminante come quella della Cina. La Cina è l’indispensabile Altro che l’Occidente deve incontrare per prendere davvero coscienza del profilo e dei limiti del suo Io culturale
Simon Leys

Occorre essere consapevoli che, sempre di più, il nostro futuro e soprattutto quello dei nostri figli, passa dalla crescita di questo straordinario Paese-continentericco di contraddizioni e infinite potenzialità.” Questo ha detto di il presidente Deng1 facendo interrogare il mondo su chi siano veramente i protagonisti della Cina post-maoista e su com’è realmente questo impero orientale di cui si sa ancora troppo poco ma che non si può più ignorare, vista la centralità di quel lontano mondo negli scenari della politica e dell’economia attuale. Chiusa al nord da deserti e da sterminate plaghe di ghiaccio, al sud da montagne e da foreste impenetrabili, all’ovest dai monti più alti e dalle sabbie più sterili del mondo, all’est dall’oceano immenso, con una superficie di 12 milioni di chilometri quadrati, con più di in miliardo di abitanti, si estende la Cina.

Cina è nome d’uso puramente europeo (elaborato da paese dei Qin, vedi dopo). Gli indigeni chiamano il paese Tchug-Kue, “Impero del mezzo”, oppure col nome della dinastia regnante. Cina è parola venuta in Europa tramite dei greci d’Egitto (Sinae, Thinae), da Thsin, dinastia potente che nel 249 a. C. riunì il paese, diviso in sette regni, sotto un solo scettro: e dura ancor oggi, duemila anni dopo che quella stirpe si spense. Il nome dinastico del paese fu, fino a ieri, Hai-Thsing-Kue, “regno dei Thsing”. Montuosa e sterile la gran parte del territorio; mentre dove i grandi fiumi s’allargano il paese è fertilissimo. I bacini dell’Hoang-ho, dello Yan-sekiang, dello Si-hiang sono altrettanto ubertosi quanto quelli più famosi d’America.

Fin nei tempi più remoti la Cina ebbe una civiltà elevata, assai diversa da quella del mondo classico, dal quale era naturalmente separata, ma non per questo meno importante. Le popolazioni di razza mongolica che prime vi si diffusero, dedite alla guerra e alla conquista, assopirono a poco a poco i loro istinti feroci, man mano che i confini dell’impero andarono allargandosi. All’età delle grandi guerre succedette una proficua pace. L’agricoltura ebbe un grande sviluppo e presto fu onorata come la nobilissima delle arti. Ogni anno l’imperatore, deposte le vesti imperiali, soleva guidare l’aratro in apposito campo, aprendo i solchi fecondi. In tutte le province i suoi messi compivano una simile cerimonia. Per le ampie strade, per i ben costruiti canali, ogni anno gli abbondanti carichi di riso si diffondevano in ogni parte del territorio. Il governo risentì questa benefica influenza di pace: al feudalismo strapotente, subentrò una regolare divisione politico-amministrativa che permise ai sudditi di sviluppare le attitudini più proficue.

Kung, ci fa la descrizione della civiltà dell’Impero celeste com’era nel XXIII secolo a. C., con la più grande accuratezza e verità, sì che tuttora fa ancora testo. Le pagine descrittive sono precedute dal ricordo delle tradizioni popolari e quando le genti si aggiravano nelle foreste del Chan-si, dispersi, senza case, senza vesti senza fuoco, a caccia di insetti e di radici per nutrirsi. Pochi i progenitori della nazione, non già autoctoni, ma provenienti, lungo il lembo meridionale del Sin-Scian, dalla regione a sud-est del Caspio, e preceduti da Panku, il primo uomo che ebbe potenza di separare il Cielo dalla Terra. Al suo regno succedettero quelli di Tien-Huang (sovrano del cielo), di Ti-huang (sovrano della terra), di Gin-huang (sovrano degli uomini). Gli uomini in queste epoche avevano, secondo la tradizione, teste di drago, corpi di serpenti, piedi equini, e cavalcavano cervi alati.

Ci atterremo al Tongkien Gang-mu (Storia generale della Cina) che fissa il principio dell’impero al regno di Fu-Hi (2397 a. C.), che primo assegnò a ciascun sesso abiti particolari e introdusse l’arte di lavorare il ferro e inventò i kira, caratteri simbolici che furono la base della scrittura cinese. Gli succedette Scin-nani (agricoltore divino), a cui si attribuisce l’introduzione dei metodi agricoli, di strumenti come gli aratri, e della diffusione di piante medicinali. Perdette il trono per opera di Suon Yuen, che fu proclamato imperatore con il titolo di Huang-Ti, inventore di tutte le arti e di tutte le scienze. Divise i suoi Stati in province e queste in circondari, creò una regolare amministrazione, distinse le classi degli abitanti con i colori degli abiti, riservando il giallo alla famiglia reale, e appunto perciò fu chiamato Huang-Ti (imperatore giallo).

L’astronomia comincia a salire in onore; dal regno di Huang-Ti, si conta il primo ciclo o periodo di 70 anni, le cui serie si succedono con la regolarità dei secoli nei calcoli europei. Gli tennero dietro il fiacco Ciao-Hao, Ciuen-Hio, fondatore di un’accademia di scienze;Ti-Ko, che introdusse con l’esempio la poligamia nell’impero; Ti-Ci, che fu deposto dai grandi per le sue male abitudini, e a cui fu sostituito il fratello Yao. Dal regno di costui comincia il documento storico più celebre e autentico dei Cinesi, il Sciu-king. o, libro degli annali, che è la cronaca più antica che esista: esso vanta la buona amministrazione, la dottrina, l’ingegno di Yao. Nel 2297 a. C., sessantunesimo del regno di Yao, avvenne il diluvio. Vista la desolazione del popolo che ne seguì, il buon re chiese gli fosse indicato qualcuno che l’aiutasse nell’amministrare i suoi popoli.

Questi fu Sciun, al quale egli diede in sposa la figlia e affidò la cura dei lavori necessari allo scolo delle acque, all’arginamento dei fiumi, al dissodamento dei terreni. Morto Yao, Sciun ereditò l’impero e si impegnò a mitigare le torture dei delinquenti, a riformare il calendario, a visitare le province. Gli viene attribuita l’invenzione della sfera cinese che porta il suo nome gli succedette il virtuoso Yu, che per 18 anni aveva condiviso il trono. Con lui cominciano le numerose dinastie dominanti in Cina, delle quali trascureremo i nomi; gli avvenimenti sono i contrasti con popolazioni limitrofe, senza valore per noi. La quarta dinastia detta degli Zin: sotto di essi (250 a. C.) fu inventata l’arte di scrivere sulla carta con inchiostro e pennello.

Sotto questa dinastia fu iniziata la gran muraglia che separa la Cina dalla Tartaria ed è il più ragguardevole monumento architettonico cinese: un grande baluardo di pietre ammucchiate, che si estende dal mar Giallo all’est di Pekino per 6000 chilometri, fin nell’interno della Mongolia2. In molti luoghi non è che un bastione, ma in altri ha fondamenta di granito e calce, e le porte fortificate. Fu iniziata nel 215 a. C. (e proseguì fino al 600 d.C.), per opporre una barriera ai Mongoli. Ha un’altezza che varia dai 5 ai 10 metri e una larghezza di 6 uomini a cavallo. Questa muraglia forma il confine di quattro province: nella pianura e nei burroni è regolare, munita di opere fortificate e di alte torri: in montagna è di proporzioni ridotte. Le porte sono a intervalli regolari, per comodità dei viaggiatori e per la riscossione dei balzelli. La Grande Muraglia, la cui lunghezza, abbiamo visto, supera i 2.400 chilometri3, ha una altezza che va dai quattro metri e mezzo ai nove metri; lo spessore è di oltre sette metri e mezzo alla base, di quattro e mezzo alla sommità4. L’altezza e la grossezza del muro diminuiscono leggermente man mano che si procede verso occidente, ma fino alla fine esso mantiene la sua rara qualità di opera eccezionale.

Partendo da Shan-hai-kwan, il “Muro dei diecimila li” corre verso occidente lungo la montagna, finchè raggiunge Calgan; è attraversato dall’importante strada occidentale di Pechino. Non molto distante, al passo di Nankow, la strada ferrata attraversa la Grande Muraglia. Questa, in alcuni punti, presenta varie cortine di muratura che formano come altrettanti festoni o frange che fanno da complemento alla muraglia centrale. Esistono, infatti, due diverse diramazioni presso Liangchowfu e un altro ramo racchiude un largo tratto di territorio ad occidente di Pechino. Dopo questa città, la muraglia si avanza nella pianura e sulle catene minori del bacino dell’Huang-ho o fiume “Giallo”, attraversandone il corso; da questo momento l’enorme barriera segue fedelmente il confine tra la Mongolia e la Cina, fino a Cauchan dove il muro raggiunge il suo limite meridionale.

Non è possibile stabilire quanto tempo abbia richiesto la erezione della muraglia. È però noto che Huang-Ti non poté vedere il compimento dell’opera e che morì quando ancora fervevano i lavori. Il Geil suppone che siano state erette in un primo tempo le torri e che in seguito sia stato completato il raccordo murale tra di esse. Il fatto che l’opera fosse compiuta da Lin Pang, primo della dinastia degli Han, non può costituire termine esatto di riferimento, perché certe opere, come da noi San Pietro non si possono mai dire compiute. E se, come sappiamo, alcuni imperatori della dinastia dei Ming restaurarono la muraglia, questo dimostra appunto che, in un’opera di così grande mole non si può mai dire la parola fine per quanto concerne lo stato dei lavori. Con l’andar del tempo un’aria di leggenda avvolse la grande Muraglia e se ne cominciò a favoleggiare come di un grande dragone di pietra eretto contro gli spiriti maligni, che frequentemente animavano la mitologia cinese.

Ci fu ancora chi cantò Huang Ti quale mago, dotato di poteri sovrannaturali, che, a cavallo di un destriero celeste sposta con la sferza le montagne e devia il corso del fiume Giallo. In effetti, le generazioni che seguirono quella, per così dire, condannata all’erezione forzata della muraglia, osservando attraverso la prospettiva del tempo, i risultati concreti dell’opera e finendo con l’ignorare l’enorme sacrificio umano che era costata, erano portate a magnificare quello che ormai era divenuto un patrimonio comune, a mitizzare la figura dell’animatore che di quel patrimonio aveva posto le fondamenta. Soltanto i diretti discendenti delle vittime, gli intellettuali, i dotti scrittori non perdonarono mai a Huang-Ti lo scempio dei libri del sapere e, accesa la fiaccola dell’odio, all’incendio che aveva distrutto il loro patrimonio culturale, propagarono per secoli e per generazioni il ricordo del Tiranno e non quello del grande costruttore.

La grande muraglia esercita ancora sul visitatore un fascino che nessun altro monumento riesce a trasmettere. Oggi siamo abituati a definire l’importanza di una grande costruzione calcolando le giornate lavorative occorse per realizzarlo o il numero di quintali di cemento, impiegati per l’armatura. In mancanza di dati tecnici così precisi, come al solito, la fantasia ci risponde cercando di dare un quadro adeguato all’opera in costruzione osservando l’opera ormai costruita. Sappiamo, ad esempio, che per trasportare le pietre furono impiegate le capre, o, più verosimilmente il dorso dell’uomo. Questo era ancora sotto Huang-Ti, la bestia da soma più a buon mercato. Ma ciò che più impressiona è la diversità della natura del suolo attraversato dalla muraglia. Si pensi che il passo di Liangchowfu e di Lan-chow si trova a 1.200 metri sul mare e che fin lassù si dovette far pervenire il materiale; e che in alcune zone desertiche fu necessario erigere fino a tre muri esterni di difesa o di riparo perché, durante i lavori, la grande muraglia non venisse sepolta dalla sabbia trasportata dal vento.

Scrive a questo proposito il Geil già citato: “Quando noi riflettiamo al lavoro richiesto per erigerla, a poco a poco indoviniamo la fatica imposta a turbe innumerevoli; il sudore, le lacrime, il sangue che devono essere stati versati e siamo preparati a udire che, dopo due millenni, il nome di “CHI” è maledetto in tutta l’estensione della muraglia dai discendenti di coloro che furono costretti all’odioso compito, che lavoravano in mortale angoscia, per paura che quando carne e sangue mancassero di rispondere alla sferza dell’aguzzino, dovessero essere gettati nella mole allo scopo di provvedere maggiore quantità di materiale al mostro divorante. È una muraglia di sangue“.

Ripetiamo che il sangue versato nella costruzione doveva, nei secoli, impedire che altro sangue si versasse, garantendo alla Cina l’imprendibilità da parte delle popolazioni del nord. Vale a dire l’enorme sacrificio del popolo cinese era in certo modo giustificato dall’utile che ne doveva derivare. Purtroppo la Grande Muraglia, sorta come opera militare difensiva, si rivelò, quando fu necessario far ricorso ad essa, una qualsiasi linea Maginot. Non riuscì, infatti, a fermare le truppe di Gengis Kan, né ad arginare l’invasione dei Manciaù.

Il fatto si può spiegare con due ordini di motivi. Il primo (e se è stato fatto riferimento alla Maginot “absit iniuria verbo”), è che non basta una grande muraglia per difendere un paese quando i suoi abitanti non posseggono un carattere e un animo più saldi della stessa difesa approntata; e i cinesi, è noto, non furono in passato formidabili guerrieri. Il secondo è che la Grande Muraglia, estesa per migliaia di chilometri, non mostrava in ogni sua parte uguale compattezza. In certi punti, anzi, era soltanto costituita da un terrapieno formato da terra di riporto trovata sul luogo, innalzata per lo spessore di circa otto metri e ricoperta sui fianchi di pietre e mattoni. Non altrimenti, del resto, si spiega la ragione del silenzio di Marco Polo, nelle sue relazioni, riguardo la Grande Muraglia. Egli, infatti, recandosi in Cina alla corte di Kublai Kan attraversò la regione del Gobi, dove assai meno imponente era la muraglia e, probabilmente, non ne rimase così impressionato da ritenere necessario farne cenno.

Wan-li Ch’eng, la “muraglia dei diecimila li”, tradì in un certo senso, lo spirito per cui era stata costruita e finì per dimostrare che il popolo cinese a troppo caro prezzo aveva pagato la megalomania del suo Primo Imperatore. E strano contrasto fanno le due lapidi, poste senza grande rilievo, ai due estremi della muraglia: “Il cielo fece il mare e montagne”, dice la prima, posta nel lato orientale; si avverte in queste parole quasi una voce di umiltà, la voce di chi è consapevole della grandiosità dell’opera appena intrapresa. “Baluardo guerresco di tutto ciò che è sotto il sole” afferma la seconda lapide, posta all’estremo occidentale; qui l’umiltà è sparita, si avverte come uno squillo di tromba di guerra, audace e sfrontato, quasi una sfida. Gengis Kan e gli altri provvidero poi a smentire tale presunzione, contribuendo così al perpetuarsi della cattiva fama di Huang-Ti, l’ispiratore della Muraglia, definita da allora “la grande divoratrice di carne umana”.

Nuova carne umana da divorare oggi sono i mingcong (letteralmente “operai-contadini”), uomini che hanno lasciato il loro villaggio per lavorare in città. Li si vede spesso scendere dal treno, con dei grossi fagotti, decisi a trovare l’eldorado nelle grandi città. Assenti dalle statistiche, i mingong, valutati 94 milioni nel 2003, sono oggi molto più numerosi. Si parla di circa 120 milioni (secondo le stime della ONG Human Rights in China – Diritti umani in Cina) di “contadini-operai” che sgobbano per costruire il miracolo cinese in condizioni inumane anche se per alcune fonti sono addirittura 180 milioni. Popolano soprattutto le città e le zone costiere dove forniscono la totalità della manodopera manifatturiera. Nelle zone economiche speciali, i 5,5 milioni di lavoratori sono per il 70% donne con meno di 30 anni, sfruttate senza vergogna con dei salari sino a cinque volte inferiori al salario minimo.

30 milioni di mingong vivono nella sola provincia del Guangdong, principale base manifatturiera nel sud-est del Paese, 6 milioni a Shanghai e 5 milioni a Pechino. E ogni anno sono 10 milioni in più. Il fenomeno risale agli inizi degli anni ’90: dopo la frenata provocata dai fatti di Piazza Tian’anmen, Deng Xiaoping rilancia le riforme economiche. In quegli anni la richiesta di manodopera nelle città è fortissima, ma l’industrializzazione del paese è solo parzialmente accompagnata dall’urbanizzazione. Nelle città, i più fortunati sono impiegati nell’edilizia con contratto di lavoro, ma la maggior parte ha degli impieghi “informali”. Esclusi da qualsiasi protezione sociale, dall’accesso alle cure sanitarie, dal sistema educativo, eppure sono loro che “fanno girare la macchina”. Il sindacato ufficiale cinese, l’ACFTU (All-China Federation of Trade Unions), cinghia di trasmissione del potere, si vede dequalificato presso questo “esercito” di lavoratori, poiché incapace di prendersi carico delle loro rivendicazioni per delle migliori condizioni lavorative e dei salari equi. Perciò i migranti creano dei “collettivi sindacali” non riconosciuti ai quali si oppone il sindacato ufficiale.

Il ricercatore francese Jean-Louis Rocca dipinge un ritratto sociale della Cina contemporanea articolata attorno a due categorie di lavoratori in contrapposizione: la vecchia classe lavoratrice delle imprese statali e la nuova arrivata, pletorica, nata dall’esodo rurale. I primi, che costituivano la base sociale del regime e beneficianti di strutture di protezione sociale e di educazione, si vedono oggi come le vittime dello smantellamento dell’economia socialista. Sono pessimisti e disprezzano i migranti. Questi ultimi, i mingong, fuggono dalla miseria delle campagne. Per la maggior parte sono giovani e quasi sempre analfabeti. Considerati come dei sottocittadini, poiché non dispongono di certificati di residenza, supersfruttati nelle zone economiche speciali, accettano, nelle grandi città, gli impieghi rifiutati dalla classe operaia tradizionale.

Sono i “carbonai” del miracolo economico cinese. Malgrado le loro condizioni difficilissime, essi però hanno la sensazione di essere in una fase ascendente. Si trovano ovunque: agli angoli delle strade di qualsiasi grande città, brandendo dei piccoli cartelli sui quali è scritto il loro mestiere, nelle fabbriche di esportazione del sud, ma anche negli edifici in costruzione a Pechino. I più giovani sono anche impiegati nei servizi. Le centinaia di migliaia di saloni di acconciature e di massaggi, di karaoke e di ristoranti che popolano il paese girano grazie a giovani mingong. La loro particolarità? I mingong sono dei “fuori classe”, come ha recentemente dichiarato l’Accademia cinese delle scienze sociali. Il loro lavoro è quello di operaio, ma il loro status giuridico resta quello di contadino: non beneficiano quindi di nessuna copertura sociale.

Tra città e campagna, l’apartheid perdura in Cina, retaggio dell’economia pianificata in cui il mondo contadino e quello cittadino erano rigorosamente separati, essendo il primo al servizio del secondo. La sopravvivenza del sistema degli “hukou” (permesso di residenza) che lega le popolazioni rurali al loro luogo di nascita, ha consentito di mantenere un vasto serbatoio di manodopera a un costo bassissimo. “A parità di lavoro, un mingong guadagna meno di un operaio, lavora di più e non ha gli stessi diritti”, spiega Lu Xueyi, presidente dell’Associazione cinese di sociologia.

I contadini cinesi hanno tre ragioni per lasciare le loro campagne: l’attrattiva di guadagni migliori, la mancanza crescente di terre a causa della crescita demografica e degli spostamenti forzati e un calo del livello di vita nelle campagne a partire dalla metà degli anni ’90. Risultato: nella città-vetrina del capitalismo cinese, Shenzhen, il 70% dei lavoratori è costituito da mingong provenienti dalle campagne dell’interno del paese e rappresenta il 35% della forza-lavoro del Guangdong. In quest’ultima provincia (capoluogo Guangzhou – Canton), la più ricca della Cina, il loro reddito mensile non raggiunge i 1000 yuan, contro una media di 1675 per gli operai con permesso di residenza. Lavorano spesso più di 70 ore settimanali (sette giorni su sette e un giorno di riposo al mese) quando l’orario legale massimo consentito è di 40 ore.

In una logica di concorrenza internazionale, i dirigenti cinesi ricordano continuamente questo “vantaggio comparativo” per attirare gli investitori, modernizzare il paese e creare il più grande numero di posti di lavoro. Ma gli investitori stranieri e gli imprenditori privati cinesi non sono i soli a beneficiare del sistema. Anche le imprese statali vi hanno fatto ricorso. Dal 10 al 20% della loro manodopera è attualmente composta da mingong. Questi migranti sottopagati sostituiscono così gli operai cittadini vittime di licenziamenti attuati per migliorare la competitività delle imprese nazionali sovrabbondanti e poco produttive. Per gli operai delle città – a lungo privilegiati dal regime e che restano uno dei principali sostegni –, il governo ha organizzato programmi di pensionamento, reimpiego o di assicurazione contro la disoccupazione.

Cittadino di second’ordine e zoccolo dell’espansione cinese, il mingong non ha alcun diritto. Lavora a giornata oppure a cottimo spesso dalle 9 del mattino a mezzanotte, riceve un salario irrisorio, sovente senza alcun contratto. Può essere cacciato da un giorno all’altro, senza avere diritto a una spiegazione. Condivide una minuscola stanza con quattro o cinque compagni di sventura o, spesso, alloggia sul luogo di lavoro, il che fa del datore di lavoro un vero padrone. Questa precarietà impedisce ai mingong di beneficiare di una seppur minima sicurezza sociale. Devono assumersi le conseguenze e i costi di un incidente sul lavoro o di una malattia. Inoltre, questi operai non rientrano nel censimento della popolazione urbana. Per questo motivo, non hanno accesso ai servizi pubblici come il sistema scolastico o i servizi sanitari. Inoltre, devono pagare tasse e imposte molto più elevate di quelle dei cittadini con permesso di residenza.

Altra carne umana divorata quella delle prostitute, fenomeno in aumento vertiginoso in Cina, con decine di migliaia di donne vengono comprate e vendute ogni anno. Un milione e mezzo di prostitute e compratori maschi sono stati arrestati tra il 1991 e il 1995. L’isola Shangchuandao a largo del Guangdong è una meta turistica che offre droga e casinò con oltre 300 prostitute. Nel 1994, 500000 turisti hanno speso oltre 55.8 milioni in servizi turistici legali personali. Le aree più colpite sono le regioni povere dello Yunnan, del Sichuan e del Guizhou. La Cina è anche destinazione di un traffico di donne provenienti dalla Ucraina e Russia. Spesso gli stessi mariti vendono le donne ai trafficanti.

Il costume pre-rivoluzionario della vendita delle mogli è ritornato nei villaggi rurali della Cina. I sensali di matrimoni – essenzialmente commercianti di schiavi – setacciano le campagne, offrendo ragazze in vendita ai futuri mariti. I reclutatori rapiscono e comprano donne e ragazzine. Dal 1991 al 1996, la polizia cinese ha liberato 88.000 donne e bambini rapiti, e ha arrestato 143000 persone per aver preso parte al commercio della schiavitù. Le donne collaborano con i sensali di matrimoni nella speranza di salvare i propri familiari dalla fame. La gente locale difende un uomo che compra la moglie, pensano che se lei prende soldi e li manda ai parenti, allora lui dovrebbe essere in grado di poterla sposare.

I trafficanti forzano gli immigrati cinesi a uno stato di servitù: le donne nella prostituzione e gli uomini nel mercato dei ristoranti. Nel settembre del 1998, 153 uomini e 21 donne, inclusi 35 adolescenti, sono giunti a San Diego, in California via Messico, dopo aver pagato 30.000 dollari ai contrabbandieri. Nel 1997, 69 e nel 1993, 650 immigrati cinesi sono stati intercettati nella stessa area. Se catturati dagli ufficiali dell’immigrazione (INS), la maggior parte viene rispedita in Cina, a meno che non riceva lo status di asilo politico. I contrabbandieri invece, sono sottoposti alla giurisdizione degli Stati Uniti.

Le ragazze cinesi, tra i 12 e i 18 anni, sono maggiormente richieste per il mercato del sesso in Tailandia da quando è diminuita la percentuale di ragazze del nord della Tailandia adescate dai trafficanti. I bordelli di Hong Kong assumono sorveglianti al fine di impedire alle ragazze di fuggire. La prostituzione è molto diffusa a Shenzhen, e i bordelli, le saune e i luoghi di ritrovo attraggono molti uomini da Hong Kong, che sorge appena al di là del confine. Inoltre la prostituzione è comunemente utilizzata da più di mille benzinai per adescare automobilisti, nella regione del Ningxia, qui gli automobilisti che vogliono comprare una tanica di benzina devono prima comprare servizi sessuali. Una campagna nazionale contro la prostituzione è stata lanciata nel 1997, che ha seguito il risorgere delle attività pornografiche a Pechino. Le autorità di Sicurezza Pubblica sono state spronate a condurre indagini su balere, saloni di massaggio, parrucchieri e villaggi vacanze per i forti segnali di prostituzione e droga. Tale campagna venne intensificata, in vista delle Olimpiadi di Pechino del 2008.

Un interessante reportage su La Repubblica (del 27 luglio 2007), ci informava che, allora in Cina, un Vip che si rispetti deve manifestare il suo status mantenendo un esercito di giovani amanti. L’ampiezza dell’harem di concubine è uno degli indicatori più fedeli del livello di potere politico o finanziario. Già Mao Zedong si era premurato di emulare gli imperatori: le memorie del suo medico personale narrano che alcune Guardie rosse della sua scorta avevano il compito specifico di reclutare giovani compagne sempre nuove, per sfamare l’insaziabile appetito sessuale del leader comunista. Il fenomeno delle “seconde mogli” iniziò con i cinesi della diaspora all’inizio degli anni Ottanta: non appena Deng Xiaoping aprì le frontiere al ritorno dei capitali che erano fuggiti all’estero durante il periodo più duro del comunismo. I ricchi imprenditori di Hong Kong e Taiwan attirati dalle riforme economiche furono i primi a investire in Cina. Facendo la spola con la terraferma mantenevano due famiglie: una nel luogo d’origine, l’altra nella seconda casa intestata a una ragazza di Canton o Shanghai.

Il fenomeno della doppia vita si è esteso a tal punto che nelle ricche metropoli industriali della Cina orientale e meridionale, da Hangzhou a Shenzhen, interi quartieri di lusso sono noti oggi come “i condomini delle seconde mogli”, abitati dalle giovani amanti (e dai figli) dei ricchi businessmen pendolari. In una fase in cui molte famiglie, anche nel ceto medio, sono preoccupate per l’aumento del costo della vita e dalla dura competizione per i figli neolaureati sul mercato del lavoro, lo spettacolo degli harem di concubine dei potenti viene denunciato come “perversione e decadentismo”. Con un’audacia evidentemente autorizzata dall’alto, alcuni organi di stampa hanno ripreso da un blog su Internet una “classifica nazionale dei campioni dell’adulterio”, un inedito campionato ufficioso degli harem.

La palma d’oro viene assegnata a un ex boss di partito del sud del paese, Su Qiyao, che con 146 amanti ufficiali ha sgominato la competizione. Yang Feng, ex segretario comunista nella provincia dello Anhui, ha vinto il premio speciale per “qualità di management”. Avendo conseguito un Master in business administration all’università di Pechino, Yang ha messo in pratica la sua competenza economica nella gestione del suo harem. Alla concubina più efficiente ha affidato la contabilità per le altre sei, e ognuna riceveva regolarmente una pagella di valutazione del suo rendimento a letto. Ma l’arrivo di una nuova compagna ha scatenato un crescendo di gelosie che hanno portato alla denuncia e alla caduta del boss. Perché naturalmente in questa classifica sono finiti solo i casi che il regime ha deciso di scoperchiare e castigare, la punta dell’iceberg.

Il fenomeno delle seconde, terze, quarte mogli in Cina denota una persistente diseguaglianza tra i sessi. Solo di recente, con la diffusione del benessere, si segnala anche il fenomeno inverso: ricche imprenditrici, o mogli di miliardari trascurate dai mariti, “affittano” per migliaia di euro al giorno giovanotti di bella presenza che le accompagnano a fare shopping, al ristorante, in discoteca e naturalmente nel dopo-discoteca. Ma è ancora un fenomeno minoritario. L’infedeltà maschile sembra provocare una riprovazione etica e sociale meno forte dell’infedeltà femminile. Il dilagare delle concubine è uno degli ingredienti che spiegano il crescente successo delle serie televisive sulla storia imperiale. In questo momento in testa agli indici di audience c’è un telefilm di 80 puntate dedicato al secondo imperatore della dinastia Tang.

Gli episodi che hanno il massimo ascolto sono quelli che descrivono le complesse lotte di potere tra concubine e cortigiane. Dietro le elaborate scenografie d’epoca il pubblico deve aver colto un sapore di attualità. Va detto, comunque, che la cortigiana ha sempre occupato un posto essenziale e di prima importanza nello spazio della Cina urbana. Se da una parte si possono rintracciare all’interno di questo spazio le prime avvisaglie di una emancipazione, dall’altra, la stessa immagine della cortigiana fu sufficiente nella letteratura, nella stampa, nella prima filmografia cinese, nell’arte e nella pubblicità, ad essere veicolo di modernità o quantomeno a diffonderne le spore.

La cortigiana era il tipo di donna maggiormente visibile in Cina a causa di una rigida separazione tra i sessi in cui il ruolo della donna appariva molto limitato e costretto. Benché durante la dinastia Qing si fosse sviluppata progressivamente un’atmosfera di verecondia ed una soffocante censura della cultura sessuale cinese, questa inibizione sociale della sessualità nella sfera pubblica non ne pregiudicò comunque la percezione favorevole nel suo vissuto quotidiano. Nella cultura cinese la sessualità aveva una connotazione fortemente positiva, fu con il neoconfucianesimo di epoca Song che si iniziò a coprire la vita sessuale di un certo puritanesimo di cui, in ogni caso le donne rimasero il principale bersaglio.

Le donne erano vittime di un sistema che sì le proteggeva ma di fatto le segregava all’interno dell’ambiente familiare. In ciò il mondo delle cortigiane rappresentava una eccezione: frequentare prostitute non era visto come un fatto anormale della vita sociale, a vita degli uomini tra le classi elevate era marcata dalla frequentazione delle loro case dove avvenivano incontri “normali” tra uomo e donna, lontani dai matrimoni combinati, liberi dall’etichetta confuciana. Solo nelle case di cortigiane i membri dell’élite potevano provare le nuove sensazioni di un legame intenso dove benché fossero sempre in gioco il tempo, il denaro e
strong il prestigio, i sentimenti potevano assurgere al ruolo di protagonista.

Nella Shanghai che si schiuse tramite mezzi coercitivi al commercio internazionale, si venne ad assistere ad una crescita esponenziale delle attività, ad una proliferazione della popolazione, ingigantita anche da successive ondate di profughi oltre che in virtù del naturale magnetismo esercitato dalla città portuale. Questa situazione ebbe come risultato una rapidità della domanda di beni e servizi cui non sfuggirà neppure questa “beautiful merchandise”: la cortigiana, modello di donna che si evolverà, diversificherà e verrà commercializzato a tal punto da far risultare la prostituzione onnipresente nel tessuto urbano. In questa abnegazione totale al commercio di Shanghai, tutte le categorie di persone appartenenti ad un vecchio mondo vennero spinte verso il basso e, complice l’abolizione del sistema degli esami e il disfacimento dell’impero, si passò da una società basata sullo status e dominata dalla classe dei mandarini (funzionari-letterati), a una fondata sul denaro, capitanata da mercanti e avventurieri intraprendenti che in questa eldorado andranno a formare una nuova classe borghese.

La società cinese era molto più rigidamente stratificata a metà dell’ottocento di quanto giungerà a essere nelle prime decadi del novecento, ma a Shanghai, che da città cinese tradizionale diventerà una metropoli appartenente ad “un’altra Cina”, moderna cosmopolita e aperta al mondo, le cose raramente sono ciò che sembrano e anche parlare di status sociale è ambiguo. Questo ampliamento della città, dei traffici, degli affari, nonché questa ipertrofia della prostituzione, sono senza dubbio da correlarsi con le concessioni che si impiantarono a Shanghai come conseguenza della guerra dell’oppio e del trattato di Nanchino del 1842. Prima gli inglesi, poi francesi e americani, ottennero molteplici privilegi, fra tutti, quello di bucare l’impero e di penetrarvi finalmente con le proprie merci e quello di acquisire intere porzioni di territorio sotto la loro completa giurisdizione. Nel caso di Shanghai queste zone occupavano l’area centrale della città, lungo la riva nord-est dello Huangpu, il fiume che l’attraversa.

La città risultava così divisa in tre parti: la concessione internazionale, la concessione francese e la municipalità cinese. Fu proprio questo policentrismo amministrativo che incoraggiò anche ogni sorta di attività illegale, criminale e delittuosa. Una gigantesca Shanghai nera, ombra stessa della metropoli, una tentacolare connection tra autorità e bassifondi che coinvolgeva tutti: consoli, banchieri, mercanti, notabili e società segrete. Basti pensare che le fondamenta del mastodontico commercio dell’oppio erano state gettate un anno prima che si stabilissero le concessioni nella città e che le più grosse banche e aziende straniere vi giocavano un ruolo preponderante. Inoltre, la stessa accumulazione primitiva dei capitali, necessaria all’avvio di una società capitalistica, a Shanghai derivò proprio da tutte quelle operazioni che sfuggivano al pesante controllo burocratico e fiscale sull’economia mercantile e proto industriale messo in atto dalla dinastia Manciù, dallo sviluppo quindi di attività sotterranee quali il contrabbando.

Shanghai era una città con un motore che funzionava a oppio. I gangster erano alla ribalta, lo stesso Chiang Kai-shek diverrà membro della famigerata banda verde. Nella Shanghai a cavallo tra i due secoli si vedono sfumare i confini tra legale ed illegale, così come quelli tra reale ed irreale, realtà e fiction. Non a caso si menziona la fiction dal momento che tutte le fonti sono finzioni, mimesi e rientrano per la loro stessa natura all’interno di questa categoria. La documentazione storica infatti non esce dalla voce delle prostitute, sia che la prostituzione sia vista come origine di piaceri urbanizzati, come pericolo morale o causa di malattie veneree, o come dolorosa e unica scelta economica. Per questo le fonti sono “gender-bounded”, ciò che si può leggere e vedere sull’argomento è di derivazione prettamente maschile. Non solo, il discorso sulla prostituzione è stato spesso strumentalizzato e visto come simbolo di ogni male.

In Francia nel corso del XIX secolo, la prostituzione è stata additata come punto focale di tutte le delusioni collettive e ansie della società nonché come senso di minaccia alla supremazia maschile. Negli Stati Uniti agli inizi del XX secolo il discorso si spinse oltre con angosce che comprendevano l’immigrazione senza limitazioni, l’anonimità delle città, la crescita della cultura urbana e della classe lavoratrice e soprattutto il cambiamento del ruolo della donna nella società. Anche in Cina ciò che venne scritto sulla prostituzione è spesso da interpretarsi come forma di nostalgia, un riferimento ad una irraggiungibile età dell’oro, e come metafora di crisi. Essendo le fonti spesso frutto di una visione e di un linguaggio convenzionali, sono da considerarsi come prodotto di un convincimento largamente condiviso dall’élite, un’accettazione generale e soprattutto acritica della prostituzione, come suggestioni.

Anche quando la documentazione storica è di origine legale o costituita da rapporti medici susseguenti campagne di registrazione o di abolizione della prostituzione, è arduo ritenere queste fonti non equivoche o meno edulcorate. I dati che ne conseguono sembrano più fotografare l’ambiguità del marasma shanghaiese. Il materiale più vivo e che offre un ventaglio più ampio di conoscenze è dato principalmente dalla letteratura e dalla stampa. Che si tratti di un genere dalla tradizione venerabile come la letteratura su cortigiane o di nuovi supporti quali la stampa e il cinema, ogni produzione a Shanghai risente di un clima febbricitante di cambiamento e della circolazione di nuove idee, tipici di quegli anni. Il giornalismo che fiorì a cavallo tra i due secoli ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione di concetti inediti e nella nascita e diversificazione della cultura urbana.

A Shanghai esisteva una sorta di stampa specializzata, la “mosquito press”, che ruotava attorno alle case di piacere, ricca di annunci, gossip, eventi, notizie, pubblicità, da cui traspira l’aria liberale e libertina della città. Altre indicazioni si ricavano dalla lettura delle cosiddette “guide del mondo galante”, che attraverso un linguaggio quasi sempre stereotipato, davano ampi ragguagli circa l’etichetta da seguire al fine di irretire le cortigiane, benché il successo di questo corteggiamento non fosse mai scontato.

La donna diventa simbolo di urbanità e incarnazione di questa atmosfera febbrile e prolifica anche nel cinema. Nelle prime pellicole emersero tutte le nuove possibilità concesse alle donne del tempo, in bilico tra libertà apparente e il condizionamento e la subordinazione alle regole di una società paternalistica. Alcuni storici hanno affermato che il subalterno è afasico e in quanto tale non ha storia, e inoltre, se donna, è ancor più relegato nell’ombra, benché la voce della cortigiana non sia udibile, se ne cercherà l’eco grazie alle infinite connessioni degli ingranaggi della macchina shanghaiese, anche come via per dare storia al soggetto.

Nel caso di Shanghai e della prostituzione non è solamente impossibile allontanarsi da queste concatenazioni ma anche indesiderabile produrre un singolo racconto senza giunzioni e relazioni. Tanto più che nella Shanghai avente status semicoloniale, ogni cinese è subalterno rispetto a qualcuno, anche se ovviamente i gradi di oppressione sono differenti. È più sfruttata una operaia filatrice di cotone che guadagna dagli otto ai dieci yuan al mese o una prostituta che ne prende due, tre a prestazione? Eccetto la visione moralistica che fa classificare la prostituzione come un’attività più vergognosa e al di là della sola riflessione economica che porta a un’impasse, si terrà conto delle altre variabili, la principale delle quali è sotto quale status la donna praticava l’attività e che grado di controllo manteneva sulle condizioni di lavoro.

La prostituzione è una costante della società umana ed è legata alla sessualità, una dimensione spesso tralasciata dal lavoro degli storici più che esserne considerata come essenziale. La prostituzione è anche specchio di tutte le trasformazioni sociali poiché l’ambiente prostituzionale è un’interfaccia tra la buona società e gli strati più bassi e devianti che la compongono: fa luce su tutta una serie di elementi quali relazioni sociali, significati sessuali, identità culturali e politiche, sulla condizione della donna e sul suo ruolo. Benché la prostituzione riguardi sempre la vendita di servizi sessuali, i molteplici significati che le si attribuiscono, richiedono che si vada al di là della referenza di “più antica professione del mondo”.

Le cause dell’ipertrofia prostituzionale che caratterizza Shanghai all’inizio del XX secolo non sono da ricercare nella miseria delle campagne, nell’attrazione che esercita l’opulenza della città, nella cupidigia di mercanti di esseri umani poiché questi fattori hanno solo esacerbato il fenomeno. La prostituzione risulta da un combo di elementi di natura e di cultura. Gli argomenti di natura, la libido maschile, non sono una spiegazione, nessun atto sfugge ad un condizionamento culturale, solo l’atto sessuale primario è un atto di natura ma non le condizioni della sua realizzazione. La prostituzione nasce da una ineguaglianza tra i sessi marcata da una impronta culturale che ha messo la donna in uno stato di subordinazione.

Letture consigliate
AAVV: Cina, Ed. White Star, Varese, 2014.
AAVV: Studiare la Cina oggi. Società, politica, lingua e cultura, Ed. Franco Angeli, 2009.
Benson L.: La Cina dal 1949 ad oggi, Ed. Il Mulino, Bologna, 2012.
Cavallero F.: Repubblica impopolare cinese. I principi-padroni della nuova Cina. E-book. Formato PDF, Ed. Bompiani, Milano, 2010.
De Giorgio L., Samarani G.: La Cina e la storia. Dal tardo impero ad oggi, Ed. Carocci, Milano, 2005.
Di Stanislao C.: Cinesertie. Note e appunti sulla Cina di ieri e più recente, Ed. CISU, Roma, 2007.
Gittings J.: Gittings, The Changing Face of China, Ed. Oxford University Press, Oxford, 2005.
Harper D.. Cina, Ed. White Star, Varese, 2013.
Vogelsan K.: Storia della Cina, Ed. Einaudi, Torino, 1986.La Cina dal 1949 ad oggi

Note
1 Deng Xiao Ping (鄧小平), pioniere della riforma economica cinese e artefice del “socialismo con caratteristiche cinesi”, teoria che mirava a giustificare la transizione dall’economia pianificata, a un’economia aperta al mercato, ma comunque supervisionata dallo stato nelle prospettive macroeconomiche. Sotto il suo controllo la Cina divenne una delle economie dalla crescita più rapida nel mondo.

2 Si tratta della Grande Muraglia della Cina, una delle più imponenti, se non la più grandiosa in senso assoluto, tra le costruzioni dovute al lavoro umano, in ogni tempo; quella muraglia, nei primi anni del 900, era ancora avvolta nella leggenda, nella favola, nel mito. In linea d’aria l’opera copre una distanza di 2.019 chilometri; se a questi si aggiungono i 400 chilometri sviluppati in lunghezza da altre parti o diramazioni addizionali si ottiene una lunghezza totale di almeno 2.400 chilometri. In origine la muraglia contava, cosa che ha del meraviglioso, 25.000 torri e 15.000 posti di vedetta. Oggi, pur nella generale decadenza, l’opera possiede ancora 20.000 torri e 10.000 posti di vedetta.