Ad Hong Kong cresce la protesta

Hong Kong protestaArrichiamoci delle nostre reciproce differenze
Paul Valéry

La Cina è un Paese enorme, 30 volte l’Italia e si estende su di una superficie di circa 9 milioni di  km². Poco più piccola dell’intera Europa. Quello che invece non tutti sanno è che la Cina al suo interno conta ben 56 gruppi etnici (xixiincina e wikipedia) e minoranze che rendono la Repubblica Popolare Cinese un vero e proprio Paese multietnico. Nel corso dei secoli, dinastia dopo dinastia, i confini si sono allargati sempre di più incorporando gruppi etnici (民族 min zu) e minoranze (少数民族 shao shu min zu) con usi e costumi completamente diversi.

Già a dicembre 2012 gli studenti di Hong Kong aveno organizzato una protesta dopo che il governo locale aveva introdotto la cosiddetta “educazione morale e nazionale” il cui scopo era cominciare a diffondere tra i residenti il senso di appartenenza alla Repubblica popolare cinese, protesta che non portò a nulla se non qualche atto sparuto di solidarietà internazionale e la stampa cinese contro, col silenzio (a parte poche eccezioni), di quella internazionale. In quella occasioni si vide chiaramente che l’idea di fondo del Partito Comunista era è quella di colmare il gap esistente tra i cinesi continentali e hongkonghesi, che troppo spesso indugiano orgogliosamente sulla loro indipendenza e guardano dall’alto in basso i loro “compatrioti”.

In quella occasione la memoria tornò ai lunghi giorni di sciopero della fame degli studenti in piazza Tian’anmen nel lontano 1989, anche perché, con un tweet, Wang Dan – tra i principali ispiratori di Tian’anmen riparato a Taiwan, annunciò uno sciopero della fame per solidarietà con gli studenti Hong Kong. Ora, dopo due anni, quegli studenti tornano in piazza per manifestare contro la decisione della Cina di non permettere libere elezioni nel 2017, con manifestazioni degli attivisti democratici, organizzata dal movimento locale Occupy central, cominciate il 27 settembre e l’occupazione, il 28, della sede del governo, mentre la polizia ha ha lanciato gas lacrimogeni e usato manganelli per disperdere la folla.

Hong Kong sta vivendo una grave crisi politica e culturale da quando, nel 1997, è tornata sotto il controllo cinese e l’esplosione del malcontento è iniziata dal 31 agosto, quando Pechino ha annunciato che non accoglierà la proposta di riforma elettorale presentata dagli studenti e dagli attivisti democratici, che da mesi chiedevano elezioni libere e a suffragio universale nel 2017. Il congresso nazionale del popolo cinese ha annunciato che i candidati alla carica di governatore della città dovranno avere il sostegno di almeno il 50 per cento di un comitato elettorale centrale nominato da Pechino e, pertanto, solo pochi candidati riusciranno a superare la selezione e quelli che ci riusciranno avranno l’appoggio della Cina.

Durissima la risposta delle autorità alle proteste continuate anche oggi con migliaia di manifestanti in piazza, con la penisola di Kowloon ed il quartiere commerciale di Causeway Bay, teatri di sit-in, cariche della polizia e manifestazioni di studenti e dei loro sostenitori. Le autorità hanno anche cercato di bloccare internet, il che non ha fatto altro che aumentare in modo esponenziale la presenza nelle piazze e a nulla è valso il rilascio del leader degli studenti Joshua Wong, 17 anni, dopo due giorni trascorsi in prigione. I corrispondenti stranieri parlano di una violenza repressiva inaudita, con manifestanti con in mano ombrelli e cellophane con i quali proteggersi dagli spray urticanti e dai lacrimogeni, dotati di grande capacità organizzativa e disciplina, con, dietro di loro, gruppi di volontari che raccolgono la spazzatura, dividendola per il riciclaggio.

Un grande esmpio di civiltà a cui la polizia risponde con determinazioone e violenza, con arresti (78 pare sin’ora), gas lacrimogeni e proiettili di gomma sparati ad altezza d’uomo. Proprio per evitare la diffusione di informazioni e immagini dal centro della protesta, il governo sta cercando di isolare anche la zona di Admiralty, fulcro della manifestazione, mentre l’amministratore dell’isola, Leung Chun-ying, ha dichiarato illegali i movimenti che sono scesi in piazza, dopo una settimana in cui ha ignorato le richieste di dialogo con i contrari al progetto di riforma, anche se si è reso disponibile ad avviare nuove consultazioni sulla riforma elettorale.

La protesta ad Hong Kong non soprende, perché questo territorio ha uno status amministrativo speciale, che dipende per la politica estera e la difesa dal Governo Centrale Cinese, ma È( o almeno dovrebbe) essere autonomo per il resto; infatti ha una propria moneta ( HKD) , emette proprii passaporti e tra HK e la Cina esistono controlli di immigration e di dogana. Inoltre, ha una specie di ordinamento politico separato dalla Madrepatria, anche se poi, a conti fatti, il governatore è sempre scelto dalla Cina, come anche i membri esecutivi dell’amministrazione.

Intanto Pechino è molto preoccupata e tuona contro l’Occidente, con il ministero degli Esteri, secondo quanto riportato dal quotidiano South China Morning Post, che ha avvertito Stati Uniti e altre nazioni di non immischiarsi negli affari di Hong Kong perchè le proteste sono una questione interna. In verità, come scrivono varti giornali, la lotta per la democrazia a Hong Kong va avanti da diverse decadi e la novità che rende questa protesta più seria e più grave è che in piazza si danno sostegno reciproco almeno quattro generazioni di attivisti, uniti per la prima volta intorno a un’unica battaglia: che a Hong Kong sia concesso il suffragio universale senza che Pechino pre-approvi i candidati.

Ching Cheong, giornalista appartenente alla corrente del movimento che vorrebbe vedere tanto Hong Kong che la Cina democratizzarsi, lamenta che le azioni delle forze dell’ordine: “stanno alienando i giovani dalla Cina. Pechino è riuscita a gettare fertilizzante sui germogli di un movimento indipendentista che non aveva tanta forza. Adesso, i giovani vogliono autodeterminazione, dicono che non hanno nulla, nulla a che vedere con la Cina. Ma se Pechino non è abbastanza saggia da calmare le cose, e usa solo la forza, allora Hong Kong può diventare un altro Tibet”.

È stato ribadito più volte che la Cina è un paese multietnico, che vede convivere diverse culture e che, attualmente e ufficialmente, riconosce ampie autonomie culturali che, secondo quanto scrive Silvana Turini, nel rispetto del pensiero moderno ha fatto valere il diritto alla differenza. Ora va ricordato che riflettendo sulla possibilità di una collaborazione effettiva delle culture e di un’alternativa alle sintesi culturali, Claude Lévi-Strauss constatava che “la civilizzazione mondiale non potrebbe essere che una coalizione a livello mondiale delle culture che conservano la loro originalità”.

Nella realtà dei fatti, con la progressiva erosione della capacità dello Stato di garantire sicurezza e benessere, sono riemerse oggi molte identità etniche e religiose, e la questione delle etnie minoritarie continua ad identificarsi come un grave problema ancora aperto in molti paesi asiatici: in India, in Giappone, in Tailandia, in Indonesia e non ultimo nella Repubblica Popolare Cinese, dove la presenza di numerosi gruppi etnici, molto diversi tra loro e rispetto alla maggioranza, e la conflittualità dei loro rapporti con la popolazione Han costituiscono una realtà scottante e profondamente radicata.

Oggi, il governo riconosce 56 distinti gruppi etnici, religiosi e linguistici, dei quali quello maggioritario è costituito dagli Han, tradizionalmente indicati come “cinesi”, e tuttavia i 96 milioni di cittadini non-Han, pur abitando un paese la cui popolazione totale conta oltre 1.200.000.000 di persone, sono lontani dal rappresentare una cifra trascurabile. Il fatto che il timore della perdita dell’unità dello Stato continui ad esprimersi attraverso uno stretto controllo delle zone più periferiche del territorio, rappresenta un elemento indicativo del valore delle implicazioni di ordine strategico, nonché di sovranità e di identità, che esso comporta: le motivazioni ultime determinanti un simile atteggiamento politico sono chiaramente legate all’importanza che il governo di Pechino attribuisce al problema delle terre abitate dalle minoranze, soprattutto in virtù della loro posizione strategica e al fatto che, a causa della dispersione delle stesse, occupino circa i 2/3 del territorio complessivo nazionale.

L’adozione di una prospettiva del genere non costituisce nulla di realmente nuovo per il “Paese di Mezzo”, per il quale il rapporto tra “centro” e “periferia”, la presenza di entità etniche diverse all’interno dello stesso Stato ed il loro processo di sinizzazione hanno contraddistinto, seppur con modalità diverse, le varie epoche della storia. Le minoranze, dunque, possono a ragione essere considerate uno dei fattori cruciali dell’esistenza della stessa Cina: vivendo nei loro territori, insediati alle porte del paese, hanno da sempre controllato le periferie che, nella visione della stessa civiltà cinese, non sono mai state considerate un elemento secondario, essendo la storia di questo paese sempre stata segnata profondamente dal rapporto con i propri “limiti” (non ha caso la Grande Muraglia è il “limite” della Cina e non già una fortificazione contro le invasioni).

Esistono ampie differenze linguistiche e pertanto culturali fra le diverse aree geografiche cinesi, con le genti del Nord discendenti dei popoli che vivevano nelle pianure della Manciuria, nelle praterie e nei deserti della Mongolia e del Xinjiang, nomadi a cavallo (tra cui gli Unni, i Turchi, i Mongoli)che poi, attraverso l’esperienza degli Uiguri svilupparono stili di vita sedentaria e, invece, quelle aborigine del Sud, che hanno ricevuto ampie influenze dall’India e dal Sud-Est asiatico più in generale.

Il sociologo Fei Xiaotong descrive la composizione del popolo cinese con la formula 多元一体 (duo yuan yi ti), “origini multiple, un solo corpo” e, come sintetizza mirabilmente Maria Roberta Canestrino, si può dire che, più di tremila anni fa un nucleo della civiltà cinese nella valle dello Huang He, il Fiume Giallo, ha cominciato ad espandersi fondendosi con le popolazioni circostanti. Il risultato è l’attuale razza cinese (中华民族Zhong hua min zu): un mosaico di cinquantasei gruppi etnici o minzu distinti, indivisibili e teoreticamente uguali, ma uguali solo in teoria.

Le politiche attuali che riguardano le minoranze etniche sono basate sulle teorie marxiste-leniniste e l’esperienza dell’ex Unione Sovietica. Il PCC ha però sinizzato alcuni aspetti importanti della teoria marxista-leninista sulla cosiddetta questione nazionale (民族问题), in particolare Mao e altri leader hanno fermamente escluso qualsiasi forma di federalismo per le minoranze, in base al principio per il quale l’unità dello Stato è il massimo valore politico e fattore primo dell’interesse nazionale. Hanno optato, invece, data la schiacciante maggioranza di Han, per una forma più circoscritta di autonomia etnica.

Nei fatti, le minoranze etniche nella Cina attuale, sono come gocce d’olio in un mare di han, che sono ormai la maggioranza in ogni provincia e in ogni regione autonoma ad eccezione del Tibet. Dal 1949 la migrazione han, sia sponsorizzata dallo Stato, sia spontaneamente, ha alterato profondamente lo spazio etnico della Cina, lasciando spazi autonomi sempre più ridotti per le culture minoritarie.


Letture consigliate
AAVV: La Cina luci e ombre. Evoluzione politica e relazioni esterne dopo Mao, Ed. Franco Angeli, Milano, 2010.
AAVV: China’s Minorities Nationalities, Ed. Foreign Languages Press, Beijing, 1989.
Bhattachorji P.: Uighurs and China’s Xinjiang Region, Ed. Council on Foreign Relations, New York, 2010.
Benedict P.K.: Sino-Tibetan. A Conspectus, Ed. Cambridge University Press, Cambridge 1972.
Di Stanislao C.: Cineserie. Note e appunti sulla Cina di ieri e più recente, Ed. CISU, Roma, 2007.
Rong M.: The Key to Understanding and Interpreting Ethnic Relations in Contemporary China, Ed. International Institute of Social Studies (ISS), New York, 2009.