Bioetica:
nascita e sviluppo di un'idea

(a cura della professoressa Maria Pia Cavalieri - Università dell'Aquila)

 

Nascita e sviluppo di un'idea

La qualità della vita

Le frontiere della vita

 

 

Nascita e sviluppo di un’idea

Non esiste, al momento attuale, ricerca scientifica che riguardi un qualche campo della medicina, che non sia accompagnato da valutazioni che investono la bioetica. Il termine ha una sua origine piuttosto recente. L’idea del neologismo risale al 1970 ad opera di Van Rensselaer Potter, ma le premesse risalgono molto più indietro nel tempo. Elio Sgreccia fa risalire l’idea di un’etica medica fin dal processo di Norimberga, allorquando furono analizzate e vennero sottoposte a giudizio le esperienze del nazismo e soprattutto le sperimentazioni che i medici-ricercatori nazisti condussero sull’umanità sofferente e indifesa dei lager. Quelle tragiche pagine della nostra storia hanno ispirato i codici di Helsinki ed i Codici deontologici moderni. D’altra parte l’OMS si è fatta carico e non cessa di emanare raccomandazioni, risoluzioni, carte e documenti affinché la ricerca scientifica avvenga entro limiti eticamente accettabili. "Si tratta di istanze e norme etico-giuridiche, se non di vere e proprie leggi, che costituiscono e testimoniano la continuità di un pensiero laico di ispirazione umanistica e personalista nella cultura europea e occidentale. [...] Propriamente parlando, anche il primo grande centro di riflessione etica, tuttora presente e molto attivo con riconosciuta autorevolezza nell’ambito della riflessione laica, l’Hastings Center, è sorto - già qualche anno prima della pubblicazione di Potter - all’interno di questa prospettiva di difesa del soggetto umano di fronte al progresso della ricerca medica, soprattutto di fronte a noti episodi di abuso in campo di sperimentazione clinica".1
A proposito di abusi Elio Sgreccia riferisce di sperimenti avvenuti negli Stati Uniti nel 1963. In quella data al Jewish Chronic Disease Hospital di Brooklin erano state iniettate, in pazienti anziani e a loro completa insaputa, alcune cellule tumorali, e nel periodo che va tra il 1965 e il 1971 in un ospedale di New York, era stata iniettato il virus vivo dell’epatite virale in bambini handicappati.

E’ chiaro che sperimentazioni di questo genere e a queste condizioni hanno suscitato non solo allarme, ma anche una forte indignazione da parte dell’opinione pubblica e richiamata l’attenzione su problematiche di ordine etico.

Siamo, d’altra parte, in un momento storico in cui assistiamo ad un proliferare massiccio ed esponenziale della ricerca scientifica e tecnologica mai riscontrata nel passato, a cui si aggiunge una diffusione delle notizie e delle tecniche a macchia d’olio e ad una loro utilizzazione a vasto raggio con conseguenze non sempre controllabili. Una riflessione al riguardo va, perciò, fatta anche sulle conseguenze, che in questo campo tanto delicato può venire da certe divulgazioni ad opera dei mezzi di comunicazione di massa. Questi spesso fanno da cassa di risonanza, amplificano i messaggi e, mentre consentono la velocizzazione dell’informazione, possono aprire la strada ad una fruizione su larga scala delle conquiste che la scienza va facendo, rischiando di mettere al servizio di sprovveduti, strumenti i cui effetti non sempre sono controllabili. (*)

A ciò si aggiunga che scienziati e tecnologi lavorano, spesso, in maniera troppo settoriale e separati gli uni dagli altri il che comporta una sorta di cammino autonomo che fa perdere di vista l’insieme, il globale. Se all’attività scientifico-tecnologica uniamo quella sociale, antropologica, ci rendiamo subito conto che l’umanità è lacerata da tendenze disgregative, che portano al disorientamento e al disagio esistenziale, compromettendo la qualità della vita. Di qui la riflessione di Potter: "Il genere umano necessita urgentemente di una sapienza come guida per l’azione, un sapere come usare la conoscenza per il bene e il futuro della condizione umana: di una scienza della sopravvivenza, la bioetica, col requisito fondamentale di promuovere la qualità della vita".2 E’ la prima apparizione del termine "bioetica" e siamo appunto nel 1970 quando viene pubblicato un articolo di Potter dal titolo Bioethics: The Science of Survival; l’anno successivo viene dato alle stampe il volume Bioethics: Bridge to the Future. La bioetica, viene precisato nel volume, deve rappresentare un ponte fra le scienze bio-sperimentali e le scienze etico-antropologiche. Se si continuasse a tenere separati i due settori si verrebbe a compromettere la stessa sopravvivenza dell’umanità. Questo, dunque, fondamentalmente lo spirito con il quale viene coniato il termine, ma quasi immediatamente la bioetica divenne campo privilegiato delle ricerche mediche ed in particolare investì il settore delle "tecnologie applicate ai processi di procreazione". "Il campo, ci dice Giovanni Russo, ma con lui concordano molti altri studiosi, era quello della fertilizzazione in vitro, dell’utero in affitto, dell’aborto, della sterilizzazione, della contraccezione, della chemioterapia, del consenso informato, dei trapianti di organo, della liceità nell’uso degli organi artificiali".3 Il progetto di Potter subisce una trasformazione di non indifferente portata. Si passa da una visione globale, che dovrebbe abbracciare tutto il mondo ad una visione evidentemente molto settoriale sia pure nella vastità dei campi interessati. La delusione per una interpretazione riduttiva, indurrà lo stesso Potter, a distanza di circa venti anni a pubblicare un altro volume: Global Bioethics nel quale insiste nel richiamare l’attenzione sulla necessità di date al termine e agli studi bioetici un taglio globale. La qualità della vita non risiede solo in un benessere fisico, anzi proprio non è possibile parlare di benessere e di qualità se non viene garantita la qualità dell’ambiente nel quale vive e opera l’uomo. Ci riferisce Russo che in un discorso tenuto nel 1975, in qualità di Presidente dell’American Association for Cancer Research, Potter ebbe a precisare: "sin dall’inizio, ho sempre considerato la bioetica come una nuova disciplina che potrà adeguatamente unificare scienza e filosofia. Più esattamente, essa costituirebbe un approccio cibernetica delle condizioni qualitative di esistenza del genere umano; ciò che io ho enucleato come un sapere come usare il pensiero per la sopravvivenza e il miglioramento della condizione umana".4 Tutti i problemi che investono il campo medico, si torna a precisare, sono di fondamentale importanza, ma riguardano solo un aspetto della più complessa visione della bioetica.

Le precisazioni, gli interventi, i dibattiti a poco servirono perché nella sostanza la bioetica si spostò decisamente sul piano della medicina per trattare argomenti posti sul tappeto da una tecnologia sempre più avanzata e sofisticata; argomenti che chiamavano in causa il concetto di vita come sopravvivenza a cui veniva offerta una notazione diversa a seconda dell’ideologia posta alla base di ogni dissertazione.

Di fronte a questa "deviazione" della bioetica, Potter si rivolse alle forze politiche perché nelle loro decisioni avessero tenuto nel dovuto conto le conoscenze biologiche nella loro globalità, al fine di garantire un futuro all’uomo. Le risorse naturali, infatti, non sono illimitate ed è necessario ed urgente un’educazione biologica ed etica perché solo partendo da essa sarà possibile ristabilire gli equilibri fra l’uomo e il suo ambiente. Ancora una volta, tuttavia, Potter deve registrare un quasi fallimento del suo messaggio. Egli stesso riferisce che mentre continuava la sua battaglia per la piena attuazione dell’idea originaria di bioetica, nella Georgetown University e nell’Hastings Center si andava avviando un altro orientamento. "Per molti, ci narra lui stesso con una punta di amarezza, la bioetica assunse quasi esclusivamente il significato di un’etica di contenimento delle opzioni mediche nei confronti delle tecnologie disponibili. Il campo era quello dei trapianti di organo, della liceità nell’uso degli organi artificiali, dell’aborto, nella sterilizzazione, della contraccezione, della chemioterapia, del consenso informato, della fertilizzazione in vitro, dell’utero in affitto e dei possibili sviluppi dell’ingegneria genetica. [...]

Pertanto, l’attenzione ai problemi di etica medica fece dimenticare l’idea originaria di bioetica, da me proposta in riferimento al quadro globale delle scienze della vita, ovvero come sintesi dei valori umani ed etici con l’ecosistema della vita".5

A questo punto sembra importante chiedersi perché abbiamo assistito ad uno spostamento della bioetica da un’originaria interpretazione globale ad una decisamente più specifica.

Secondo Warren Reich il motivo va individuato nella diversa specializzazione di due caposcuola: Potter e Hellegers. Mentre il primo, nella sua qualità di oncologo guardava alla bioetica come ad una uova disciplina che avrebbe potuto non solo risolvere l’annoso dualismo fra scienza e filosofia, ma avrebbe riconciliato l’uomo e la natura, l’ambiente nel quale vive, Hellegers, al contrario, essendo un ostetrico, aveva lo sguardo puntato prevalentemente ai problemi demografici. Non è infatti un caso che fu proprio Potter ad attribuire alla bioetica la funzione di ponte, di collegamento fra due culture da sempre sistemate su due diversi piani: le scienze sperimentali e quelle umane, così come sarà di Potter un interesse vivo per i problemi legati alla sopravvivenza della specie umana, delle nazioni e delle culture.

Hellegers, che lavorava alla Georgetown University, al contrario, introdusse "il termine bioetica - e con esso un campo di ricerca e di pubblico interesse - nel mondo accademico, in quello delle scienze biomediche, nel governo e nei media".6 Va anche riconosciuto ad Hellegers l’istituzione e la direzione del primo istituto al mondo di bioetica, con dichiarata impostazione interdisciplinare. Egli riteneva che la bioetica potesse essere un ponte fra la scienza e l’etica ed il suo merito maggiore va individuato proprio nell’averne fatto una disciplina. Hellegers, ci dice Reich, solitamente paragonava lo sviluppo della bioetica a quello che negli anni cinquanta ebbe la medicina fetale. "La fisiologia fetale prese piede quando i fisiologi cominciarono ad "interessarsi al feto come già si faceva per l’adulto". "Così la bioetica - aggiungeva Hellegers- prenderà piede quando i moralisti diventeranno interessati ai problemi biologici come a quelli che riguardano la teoria di una guerra giusta". E come i perinatologi avanzano maggiormente in fisiologia perinatale rispetto a un comune fisiologo, così anche - diceva Hellegers - i bioeticisti avanzeranno di più nell’etica delle scienze della vita rispetto ad un semplice filosofo o teologo moralista".7 La fortuna della bioetica può essere, dunque, rintracciata nella formazione del primo team permanente che Hellegers costituì nel Kennedy Institute. E a chi si chiede se comunque fra i due capiscuola ci fosse stata una rivalità Reich risponde che in realtà il dissenso di Potter per l’interpretazione e l’introduzione della bioetica nell’accademia non era rivolto a Hellegers, ma piuttosto all’uso che se ne faceva al Georgetown Center. A tal riguardo Potter seguitava a sottolineare che la sua concezione voleva essere molto meno riduttiva; decisamente più ampia e articolata. La posizione del Georgetown Center storicamente ha, comunque, avuto la meglio e si è non solo imposta rispetto all’iniziale atteggiamento di Potter, ma ha avuto senz’altro più fortuna probabilmente anche perché Hellegers riuscì a raccogliere fondi sia privati che statali che investì per lo sviluppo della bioetica. A ciò si aggiunga che egli si preoccupò di fare in modo che le agenzie governative fossero sensibilizzate al problema e la sperimentazione clinica tenesse conto dei principi fondamentali della nuova disciplina. In ultima analisi Hellegers "si circondò di dotati studiosi di etica, di scienze biologiche e sociali, che potessero sviluppare nuovi metodi interdisciplinari e pubblicazioni in bioetica; sostenne la creazione di un programma accademico di bioetica nella Facoltà di Filosofia, per preparare nuove competenze scientifiche".8

Reich, a conclusione della sua attenta analisi del cammino segnato dalla bioetica e a proposito della diversa attenzione che il mondo scientifico ha rivolto alle due impostazioni, si dichiara più vicino all’ideatore e coniatore del termine proprio per quella sua visione più globale del problema. Egli sostiene che nell’idea originale va messo in rilievo proprio il contributo dell’etica alle scienze della vita e della salute e che, perciò, allorquando ci allontaniamo dal suo significato primigenio sarebbe opportuno che il termine fosse accompagnato da una serie di aggettivi che ne qualificherebbero meglio il campo particolare di interesse. In tal caso potremmo parlare di bioetica medica, di bioetica ambientale, di bioetica clinica, di bioetica infermieristica, bioetica farmacologica, ecc.

E’ un dato di fatto che le problematiche emerse dalla bioetica ben presto si sono estese a macchia d’olio ed hanno avuto una grande risonanza non solo in America, ma anche in Europa. Nel mondo culturale, qualunque fosse l’orientamento ideologico religioso o politico si andava facendo sempre più pressante il bisogno "di affrontare nella sua globalità il problema del rispetto nei confronti della vita e della sensibilizzazione culturale a questo valore".9 L’interesse sempre più massiccio per la bioetica ne fa, oggi, un argomento del quale il mondo culturale non può più fare a meno. L’intensificarsi delle ricerche scientifiche, la loro invadenza, il moltiplicarsi delle risorse tecnologiche messe al servizio dell’uomo impongono una riflessione sul piano etico perché sia garantita la qualità della vita presente e futura. Salvino Leone sostiene che "sarebbe più esatto affermare che l’uomo di oggi, in questo interesse per la bioetica, manifesta e scopre l’esigenza di imprimere da sé una prospettiva morale alla sua attività, di non farla dipendere da altri, di non aspettare che siano altri a darla, di non farla calare dall’alto, strutturando tutto il suo intervento sulla realtà all’interno di tale orizzonte".10 Laddove per il passato il giudizio etico era affidato alla Chiesa, alla religione, alla filosofia, ecc. Attualmente sono chiamati gli individui, che affrontano determinati problemi ed argomenti, a porsi interrogativi circa la liceità o meno delle loro proposte.

La bioetica, allora, come qualsiasi altra disciplina ha bisogno di un suo statuto epistemologico, ha necessità, cioè, di individuare una definizione che ne sintetizzi il campo d’azione. Si sono, così, affermate un certo numero di definizioni che Salvino Leone riporta, scegliendo fra quelle che, a suo giudizio, sono fra le più ricorrenti. Le cito perché ciascuna implica un diverso angolo di osservazione e, quindi, una diversa impostazione delle problematiche.

 

"Studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta viene esaminata ala luce dei valori e dei princìpi morali (W.T. Reich)

 

- Filosofia della ricerca e della prassi biomedica (E. Sgreccia)

 

- Settore dell’etica che studia i problemi inerenti alla tutela della vita fisica e in particolare le implicazioni delle scienze biomediche (S. Leone)

 

- L’etica applicata ai nuovi problemi che si sviluppano alle frontiere della vita (C. Viafora)

 

- L’etica in quanto particolarmente relativa ai fenomeni della vita organica del corpo, della generazione, dello sviluppo, maturità e vecchiaia, della salute, della malattia e della morte (U. Scarpelli)

 

- La scienza sistematica dell’uomo etico che indaga gli ambiti e le leggi della tecnogenesi trasformativa del mondo biologico (G. Russo)"

 

Nel 1995 Reich ha completato quella sua iniziale definizione, aggiungendo elementi che definiscono ancora di più il campo della bioetica:

"la bioetica è lo studio sistematico delle dimensioni morali - inclusa la visione morale, le decisioni, la condotta e le politiche - delle scienze della vita e della salute, utilizzando varie metodologie etiche e con un’impostazione interdisciplinare" (Reich, 1995)

 

Tutte le definizioni, implicitamente o esplicitamente, aprono il discorso su campi di indagine di ampiezza e di delicatezza non indifferente. Si tratta cioè, lo ripeto ancora una volta perché mi sembra fondamentale, di stabilire quali strumenti, quali interventi sono leciti per garantire la qualità della vita.

Riprenderò più oltre il discorso sulla qualità della vita, qui è opportuno aggiungere qualche altro concetto. La delicatezza dei problemi affacciati dalle varie definizioni testé riportate, e, soprattutto le indicazioni offerte in quell’ultima del 1995, inducono a ritenere che la bioetica non possa essere una disciplina assolutamente autonoma, ha bisogno del contributo di numerose altre discipline. Dal punto di vista metodologico, perciò, la bioetica ha bisogno di una impostazione interdisciplinare perché ad essa, in un certo senso, spetta il non facile compito di decidere l’atteggiamento da assumere nei confronti delle continue sfide che le ricerche scientifiche lanciano all’uomo. E si tratta non solo di sfide rivolte al singolo o alla società del momento, ma di sfide che investono il futuro stesso dell’umanità, così come è importante che non si perda mai di vista l’uomo nella sua complessa interezza. Mai come oggi l’avvenire dell’uomo è tutto affidato alle sue stesse mani. Grande responsabilità, dunque, ma anche grande impegno, riflessione costante, analisi dettagliata delle molteplici conseguenze a cui può portare il più semplice o banale intervento teso a modificare il percorso naturale dell’esistenza. In questo senso torna a farsi largo quella iniziale visione ecologica del concetto di bioetica lanciata dal suo ideatore Potter: bioetica è veramente un ponte fra presente e futuro. Dalle decisioni delle generazioni presenti dipenderà l’avvenire delle generazioni successive. Dall’oggi dipende la qualità della vita futura.
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La qualità della vita

L’argomento è ampiamente dibattuto; se ne parla costantemente e a tutti i livelli, non escluso il campo medico. Va innanzitutto chiarito che l’interesse per questo tema si è fatto più vivo in coincidenza con il famoso boom economico allorquando, aumentando il "benessere" dell’uomo si è prestata maggiore attenzione alla sua salute e alla sua serenità. L’attenzione, tuttavia, si è rafforzata grazie anche e in modo particolare, come ho più volte accennato, al moltiplicarsi delle ricerche scientifiche e alle continue, costanti scoperte che si vanno realizzando e dalle quali ci si attende un miglioramento o almeno la soluzione di non pochi problemi di ordine clinico. La disponibilità di strumenti diagnostici sempre più precisi e sofisticati inducono a sperare in un avvenire nel quale l’uomo riuscirà a sconfiggere la malattia e il dolore fisico da sempre subiti e accettati come una sorta di religiosa condanna. Le contemporanee politiche nel campo dell’assistenza sanitaria e la creazione di uno stato sociale, hanno contribuito notevolmente a rafforzare le speranze in un sempre maggiore miglioramento delle condizioni della vita. Non va dimenticato che in meno di venti anni si è verificato un consistente prolungamento della vita media della popolazione a cui va aggiunta una notevolissima riduzione delle cause della mortalità infantile.

A ciò, necessariamente, si collegano le ricerche riguardanti la contraccezione, la procreazione assistita, le tecniche di trapianto degli organi, e soprattutto gli studi sul DNA che, sia pure con tutte le cautele che gli argomenti richiedono, hanno contribuito a prolungare l’esistenza di non pochi cittadini e, in taluni casi, a renderla meno sofferente. Su quest’ultimo campo del Dna è concentrata gran parte dell’attenzione degli scienziati perché dalla decifrazione del codice della vita ci si aspetta di individuare gli elementi responsabili di tante malformazioni e di tante malattie ancora ritenute inguaribili.

Non meno importanti sono le ricerche nel campo delle scienze umane dove, ad esempio, gli studi sullo sviluppo psicologico dell’uomo consente di chiarire quali debbano essere le attenzioni nei confronti dei soggetti in età evolutiva per garantire loro una crescita all’insegna dell’armonia e dell’equilibrio.

La molteplicità, la peculiarità delle problematiche conferisce, dunque, una svolta decisiva allo studio della condizione umana e si fa largo la convinzione che non è più accettabile la sola attenzione alla vita; la società deve farsi carico di un problema molto più complesso, ma proprio per questo più stimolante e significativo: deve garantire un "vivere bene".

L’espressione, tuttavia, è troppo generica per poter essere assunta senza chiedersi quali sono i requisiti che determinano il "vivere bene". Ancora una volta mi appoggio a studiosi che hanno affrontato il problema e in modo particolare ho presente la posizione di Salvino Leone. Il pensatore discute, nel suo lavoro, alcune tesi che mi sembrano piuttosto illuminanti. La prima posizione che affronta è quella di Fletcher il quale sostiene che sono requisiti irrinunciabili: "minimo intellettivo (Q.I. superiore a 20-40), autocoscienza, autocontrollo, senso del tempo (presente passato, futuro), capacità di relazione, interesse per gli altri, capacità comunicativa, controllo dell’esistenza, curiosità, capacità di cambiare, equilibrio tra ragione e sentimento, funzioni neocorticali". E’ palese che i requisiti proposti da Fletcher pongono qualche problema e suscitano delle perplessità a Leone il quale si chiede perché non inserire accanto alla dimensione temporale anche quella spaziale, perché non guardare alla "capacità di amare" anziché alla semplice curiosità, ecc. Altri autori hanno precisato altri requisiti così Tooley si rivolge alla "soggettività e all’autocoscienza"; McCormich parla di "potenzialità relazionale" e Engelhardt si affida ad una triade di elementi: "funzioni cerebrali, autocoscienza e relazionalità".

Gli elenchi, è evidente, che sono sempre molto indicativi, ma in questo caso direi che lasciano aperte le strade ad una molteplicità di interpretazioni e, proprio nella designazione della qualità della vita, lasciano adito a molte perplessità e a dubbi veramente laceranti. Se per un verso si può sostenere che la vita, osserva Leone, "nella sua intangibilità non può ritenersi un valore del tutto "assoluto" ( si pensi alla legittima difesa, all’autoimmolazione eroica per il bene del prossimo, alla nobiltà del suo rischio per la vita altrui, al bene spirituale cui è subordinata) dall’altro la volontà di promuovere e tutelare la sua qualità non deve necessariamente escludere la tutela di quella apparentemente priva di "qualità" e quindi di valore".

Sia pure di fronte ai numerosi interrogativi la nostra tensione è nel raggiungimento di un tipo di vita che possa essere messo al riparo da tanti disagi e limitazioni. In questo le ricerche in campo medico aprono senz’altro alla speranza. Anzi, direi che al momento attuale la speranza è sorretta proprio dal prolungamento della durata della vita. Si tratta ora di vedere come e quando la tutela della vita coincide con la sua qualità e se il solo aspetto fisico possa risolvere in pieno il problema o non si renda necessario un "ambiente" relazionale più consono alle diversificate situazioni soggettive. Ritengo che l’errore più grave che si possa commettere nei riguardi dell’uomo è quello di considerarlo solo dal punto di vista del corpo perché si rischia di ridurlo ad una sorta di macchina, sia pure particolare rispetto a tutte le altre macchine, in quanto provvista di pensiero. Non va dimenticato che proprio quando si parla di pensiero, all’uomo va riconosciuta anche una sua attività spirituale. Sempre più diffusamente si parla di unità bio-psichica e sempre più la medicina, almeno una sua sezione o branca, parla per un verso di malattie psico-somatiche e per altro verso dell’importante ruolo che la volontà, la gioia di vivere e l’attaccamento alla vita hanno nella guarigione da malattie. Una visione meccanicistica della vita risulterebbe estremamente riduttiva e sconfortante per l’uomo in generale, ma potrebbe essere quanto mai discutibile se diventasse l’idea-guida degli scienziati perché in tal caso ogni intervento, di qualsiasi natura, troverebbe la sua piena giustificazione. La macchina-uomo sarebbe, come ogni macchina un insieme organico di pezzi con funzioni diverse, ma pur sempre pezzi. L’interrogativo diventa d’obbligo: come ogni macchina, allora, i suoi pezzi possono essere sostituiti quando sono usurati, e quando tutto il meccanismo non funziona più, il suo organismo può essere ridotto a pezzi in parte da "rottamare" e in parte da "riciclare"?

E’ evidente che non mi sento di condividere una siffatta visione dell’uomo e concordo decisamente con quanto ha avuto modo di sostenere di recente il Professor Scapagnini in una trasmissione televisiva: c’è nel concetto di vita dell’uomo un mistero invalicabile. Per quante scoperte gli scienziati vorranno fare non riusciranno mai a varcare alcuni confini. E, diceva Scapagnini, di essere pervenuto a questa convinzione dopo almeno trent’anni di ricerca, in campo farmacologico, condotta con spirito assolutamente laico.

Altri argomenti meriterebbero uno spazio più ampio, ma in questo contesto, per l’economia stessa della tematica principale, mi limito a darne solo un cenno. Si tratta dei contributi che un interesse culturale protratto nel tempo, una vita di relazione soddisfacente e ampia, una esistenza dinamica, ecc., offrono a garanzia di una più sicura qualità della vita, perché contribuiscono ad allontanare il soggetto da numerosi mali di cui la società odierna sembra essere portatrice, come, ad esempio, la depressione psicotica.

Ma, ritorniamo ad un discorso che sollecita vieppiù una riflessione attenta e impone scelte oculate: di fronte alle potenzialità emerse dalle innovazioni in campo medico-farmacologico e biologico quali sono i problemi più scottanti di cui la bioetica deve farsi carico? E’ un dato di fatto che, mentre si plaude al progresso tecnologico per quel tanto di garanzia di un sempre auspicato benessere, all’uomo si pongano inquietanti interrogativi. Laddove un tempo la vita e la morte, la salute e la malattia erano fenomeni legati unicamente alla natura, oggi in larga misura sono modificati e affidati all’iniziativa e alla ricerca scientifica, quando a quest’ultima non è addirittura affidata la manipolazione stessa della vita.

L’interrogativo più lacerante è se l’uomo possa essere fatto oggetto di sperimentazione, se la vita ha valore in rapporto alla sua qualità o è, al contrario, un bene assoluto che va difeso anche a costo di grandi sofferenze; in quest’ultima ipotesi l’interrogativo si sposta sul piano della accettabilità dell’accanimento terapeutico. E ancora: l’uomo ha l’autorità per superare i confini della natura e modificarla quando le tecniche a disposizione lo consentono? In quali casi e dentro quali limiti l’intervento è accettabile? Le risposte si possono riunire in due diversi gruppi di pensatori: coloro i quali hanno una visione assolutistica della scienza per cui la ritengono sovrana e in grado di risolvere tutti quei problemi che l’umanità ha sempre sopportato, ma di cui ambiva fortemente liberarsi; e coloro i quali, al contrario guardano con sospetto alle continue scoperte scientifiche perché ne ravvisano tanti rischi che potrebbero compromettere l’avvenire stesso dell’umanità. Da questo duplice schieramento si è originata una sorta di divaricazione della bioetica sicché da una parte abbiamo bioetici rispettosi di una ideologia cattolica che frena fortemente alcuni esperimenti scientifici e mette il veto su molti interventi terapeutici, dall’altra parte abbiamo bioetici laici che seguono una impostazione più permissiva e anglosassone. Una giornalista specializzata nel settore scientifico: Gianna Milano, che si porta dentro le due anime dell’italiana che bene o male ha respirato l’aria impregnata di cultura cattolica, e della specializzata all’Università di NewYork e al Massachussetts Institute of Technology, quindi vissuta in un ambiente carico di fiducia nelle risorse scientifiche ci mette in guardia dagli schieramenti pregiudiziali. "Più proficuo, ci dice, sarebbe richiamarsi a ciò che hanno prodotto le varie culture valutandone le possibili convergenze, e affrontare i nodi proposti dal progresso della biologia, che non coinvolgono più il singolo individuo, ma l’intera comunità, secondo una nuova razionalità scientifica che diventi di per sé un valore, frutto delle esigenze etiche della ragione". Gli scienziati sono consapevoli di questa esigenza, ma, si chiede la Milano, siamo sicuri che nelle loro scelte poi sono così oculati da evitare che la "verità scientifica" abbia sempre la meglio? Se per un verso la scienza ha aperto all’uomo frontiere un tempo ritenute valichi insuperabili, per altro verso lo ha introdotto nei meandri del mistero della vita, il che lo induce costantemente a proseguire incessantemente la sua esplorazione. E’ come se l’uomo, lo scienziato si fosse finalmente impossessato del sacro fuoco degli dei, in non pochi casi ha la sensazione di avere nelle sue mani il destino stesso di tutti gli altri suoi simili e questo può giocare un ruolo contraddittorio: mentre può fargli esperire strade che sollevino l’umanità sofferente, come ho già avuto modo di dire, da angoscianti situazioni di malessere, può, al contrario, fargli gustare una insana esaltazione di sé, sicché va avanti spregiudicatamente nelle sue sperimentazioni senza porsi interrogativi di liceità.

I rischi sono grossi, tuttavia mi sembra di poter dire che numerosi ricercatori sia appartenenti a ideologie religiose, che laici si chiedono con insistenza se tutto ciò che è tecnicamente e scientificamente possibile sia "eticamente lecito".

Giovanni Berlinguer sostiene che è necessario ripensare al problema della bioetica e farne un argomento di discussione non già delle sole attività scientifiche di tipo riparatorio, ma una maggiore attenzione andrebbe rivolta a ricerche che affrontino i problemi alla radice, che offrano soluzioni prevenendo e non già ponendo solo ripari a mali ormai consolidati. Ed entriamo nel vivo di una scottante discussione: "Si discute giustamente, osserva Berlinguer, su alcuni casi di eutanasia, di "buona morte" eventuale, ma si ignorano milioni di cacotanasie, di pessime morti premature e immeritate che avvengono per mancanza di prevenzione e di cure". Un’ultima conferma di quanto sia drammaticamente diffusa questa situazione ci è stata data dalle immagini sconvolgenti, apparse sui teleschermi nel Tg1 di martedì 20 maggio, di un gruppo di ricoverati in un ospedale psichiatrico di Mosca, che stanno morendo di fame, ai quali qualche giorno prima, per una certa ricorrenza, (non ricordo quale fosse) erano stati inviati fiori, anche questi divorati da pazienti affamati; pazienti ai quali è stati persino negato di uscire nel parco che circonda l’ospedale per impedire loro che mangiassero le poche erbe spontanee. Un medico, interpellato sulla situazione di un paziente, rispondeva che non veniva curato perché il suo stato di denutrizione era tale per cui le medicine non avrebbe potuto avere alcun effetto. Questo, indubbiamente, ci dice molto di più di una eutanasia, forse è più grave e colpevole di una morte dolce. E’ l’ultimo episodio di cui si è parlato in questi giorni, ma certamente molti altri, troppi si trovano nel nostro globo.

L’osservazione di Berlinguer investe, tuttavia anche altri problemi di frontiera: "Si dedicano giustamente, prosegue il nostro interlocutore, energie scientifiche e riflessioni morali alla fecondazione artificiale, ma si lavora ben poco, come ricerca e come attività pratiche, sulla diffusissima sterilità, alla quale in rari casi la fecondazione artificiale può porre rimedio. Si creano giuste preoccupazioni per il controllo farmacologico o genetico del comportamento, trascurando, anche come analisi scientifica, l’attuale diffusa manipolazione umana attraverso altri canali. La bioetica e le bioscienze rischiano così da un lato di concentrarsi su temi riparativi di carenze altrimenti riparativi (il trapianto è secondario, in senso temporale, all’irreversibile danno cardiaco o renale, la fecondazione artificiale alla sterilità), dall’altro di isolarsi dal flusso di esigenze ed esperienze comuni a tutti, costringendo l’opinione pubblica a oscillare dal mirabolante al terrificante". La citazione è lunga, ma mi sembra offra molti spunti di riflessione per quell’appello che il Berlinguer implicitamente rivolge ai ricercatori perché, sia pure non trascurando le possibilità di interventi riparatori, tengano nel dovuto conto ricerche mirate a risolvere i problemi a monte. Mi chiedo, inoltre, se non debba ravvisarsi nel discorso di Berlinguer un suo implicito richiamo ad una bioetica più vicina alla originaria idea di Potter, in grado cioè di studiare i fenomeni nella loro globalità e non solo nella loro specificità. L’uomo, in ultima analisi, è una sintesi di corporeità, razionalità e spiritualità; è natura, ma dalla natura si distingue per le sue funzioni di soggetto dotato di pensiero conoscitivo e "creativo". Diceva J. Dewey che l’uomo si distingue da ogni altro essere vivente della terra perché si adatta all’ambiente trasformandolo. Forse, però, è proprio questa sua prerogativa che lo ha posto al centro di un complesso dibattito, perché i suoi interventi modificatori abbracciano campi estremamente delicati come la nascita e la morte, la manipolazione genetica e più di recente la duplicazione o più propriamente la clonazione.
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Le frontiere della vita

Alle frontiere della vita si collocano l’alfa e l’omega dell’esistenza umana. Nascita e morte rappresentano quei confini entro i quali si colloca tutto il nostro percorso di vita e la loro importanza è testimoniata dal fatto che da sempre sono stati ritenuti i due fenomeni maggiormente circondati da un alone di mistero. Si tratta, in altri termini, di due momenti avvolti da un fitto velo di sacralità, che la scienza ha tentato e per certi versi è riuscita a disvelare. Ma sono proprio questi tentativi di intervento a suscitare i più accesi dibattiti che hanno visto i bioetici dividersi fra sostenitori della sacralità della vita e laici.

Lecaldano fa coincidere l’inizio dei dibattiti sulle questioni etiche riguardanti questi due punti di demarcazione della vita umana con il periodo della industrializzazione nell’Inghilterra della prima metà dell’ottocento allorquando ci si poneva di fronte a interrogativi riguardanti l’incremento della popolazione e il dilagare di sacche di grave povertà. Fu proprio la riflessione sulla inconciliabilità fra povertà e dignità, qualità della vita a porre sul tappeto la questione del controllo delle nascite. I sostenitori della sacralità si opposero energicamente al principio del contenimento delle nascite in maniera così decisa da arrivare a prevedere pene, carcere e altre varie sanzioni per quanti avessero osato ricorrere a pratiche anticoncezionali. A questa logica si oppose in maniera energica Stuart Mill il quale arrivò persino a distribuire dei volantini con le indicazioni malthusiane alle donne che uscivano dalle fabbriche, per renderle informate sulle pratiche "anticoncezionali".

Per questa sua presa di posizione Stuart Mill fu arrestato, fu tenuto in carcere per un breve periodo, ma la punizione doveva apparire esemplare.

La disobbedienza di Mill consisteva nel fatto che non condivideva il fatto che il concepimento fosse messo nelle mani della provvidenza come sostenevano i sostenitori della sacralità della vita, mentre il suo obiettivo era rivolto totalmente alla creazione di un atteggiamento di responsabilità soprattutto in vista di una vita, come ho già detto, degna di essere vissuta. Il principio secondo il quale la nascita doveva essere legata al rispetto della provvidenza risultava essere debole proprio nella formulazione: ""nessuna infelicità può derivare dall’operazione di una propensione naturale e che per quanto riguarda le nuove nascite la questione va vista non tanto preoccupandoci delle nuove bocche, ma con la certezza che "Dio invia piuttosto cibo". Questo atteggiamento che affidava totalmente alla natura i processi del concepimento equivaleva a rendere peggiori e insostenibili le condizioni delle famiglie povere e numerose. Mill precisava inoltre che era questo atteggiamento non responsabile di fronte al concepimento ad aumentare il numero di aborti ed infanticidi". In tempi più recenti i sostenitori dell’aborto sembra abbiano ricalcato molto da vicino il percorso di Mill soprattutto per quel suo incalzare sull’eliminazione di pratiche illegali, così come tutto il movimento dei sostenitori della contraccezione si appoggiano fondamentalmente sul principio di gravidanza responsabile.

Di fronte alla decisa spaccatura fra sostenitori della tesi di un concepimento responsabile e difensori della sacralità della vita è necessario affrontare almeno altri due interrogativi:

1. Quale tipo di vita è da considerare sacra?

2. Quando riteniamo che la vita sia sacra?

Per quanto riguarda il primo quesito le posizioni sono ancora decisamente contrastanti perché, osserva Lecaldano, i fautori "del principio di sacralità della vita, almeno nella nostra cultura impregnata di cristianesimo, non intende sostenere che qualsiasi forma di vita sia sacra, ma considera tale solo la vita umana. Non è certo sacra la vita delle forme biologiche più elementari, né quella di animali pure molto complessi ed evoluti come i primati o gli animali domestici". Da qui si origina il secondo interrogativo, che comporta anche più ampia riflessione perché ad esso è legato strettamente il concetto di anima. Quando, in quale preciso momento possiamo ritenere che l’embrione riceva l’anima? Se dovessi rispondere io personalmente avanzerei l’ipotesi che l’anima non possiamo datarla con matematica certezza in un preciso momento dello sviluppo; essa è la vita stessa e quindi coincide con l’atto d’amore; atto che si nutre di elementi ben diversi da quelli meramente meccanicistici e biologici; è anch’esso soffuso di mistero che è poi, appunto il mistero stesso della vita, quell’elemento inesplorabile e che, sempre a mio giudizio, per quanti sforzi farà la scienza sfuggirà al controllo dell’uomo. Vicina, per certi aspetti, a questa mia convinzione, mi sembra sia la posizione di Chiara Saraceno. La studiosa lega strettamente la valutazione sull’inizio e la fine dell’esistenza a problematiche di ordine culturale e sostiene che "la vita non esiste mai di per sé, né è in se stessa sacra, ma solo in quanto si iscrive all’interno di una particolare concezione sia della vita che dell’essere umano" sicché voler considerare la vita solo dal punto di vista biologico è alquanto riduttivo. La vita, il suo senso ed il suo valore sono strettamente legati a principi filosofici, etici, religiosi, culturali. Per poter dimostrare la validità di tali affermazioni la Saraceno mette a confronto due grandi culture molto distanti fra loro: quella occidentale e quella orientale e più propriamente quella statunitense per l’occidente e quella cinese per l’oriente. Tra i molti esempi, dice la studiosa, che si possono assumere per dimostrare che inizio e fine della vita sono "al di fuori dei parametri biologici, ma all’interno di un contesto di relazioni" il primo "è tratto dalla letteratura psicoanalitica" e questo per dimostrare che l’occidente "guarda non solo al senso della vita, ma alla possibilità soggettiva di vivere come esseri umani". La psicoanalista Maude Mannoni, ci racconta Chiara Saraceno, di fronte ad un neonato che rifiuta di mangiare sollecita la madre a chiamarlo per nome in modo da comunicargli una sorta di riconoscimento. Il nome è distinzione, è cioè attribuzione di una identità il che gli comunica che sta vivendo come soggetto, come individuo e questo può risvegliare nel piccolo il desiderio di vivere. Ma, ancor più significativa mi sembra l’affermazione successiva: "La stessa Mannoni, aggiunge la Saraceno, più volte nei suoi studi ribadisce che un bambino inizia ad esistere ben prima del concepimento, nel desiderio e nella vicenda individuale dei genitori, nella storia delle generazioni che lo hanno preceduto. E’ la vicenda e l’ordine simbolico delle generazioni che lo precedono che "fa esistere" un individuo e gli conferisce un particolare statuto e fisionomia: così che egli possa esistere come essere assolutamente individuale, ma insieme come parte di una rete intersoggettiva che a quel nome e a quella stessa esistenza dà un senso non generico, ma preciso". L’argomento è di per sé affascinante e trova sostegno nel forte anelito di ciascun uomo di sentirsi profondamente radicato in un contesto socio-familiare e, contemporaneamente di passare il testimone della propria esistenza alle generazioni successive. E’ il desiderio che spinge comunque ogni adottato a non darsi pace finché non ha rintracciato il proprio o i propri genitori naturali. Ma, proprio di fronte a questo desiderio di continuità fra passato e futuro come si viene a collocare una nascita frutto di un concepimento eterologo? E il figlio nato da un utero preso in affitto in chi delle due madri potrà trovare quelle radici che contribuiscono a dare senso alla sua individualità? Per non parlare poi delle Banche del seme dalle quali farsi offrire un servizio, proprio come nelle comuni Banche commerciali. Il problema è reso ancor più complesso da quel desiderio di maternità che comunque alimenta tante vite di coppia. L’argomento si connota di ulteriore problematicità se pensiamo che ad esso sono strettamente legate le conquiste dell’eugenetica. La possibilità, offerta oggi dalle nuove ricerche, di eseguire dei test genetici addirittura sull’embrione per poter evidenziare eventuali difetti genetici, apre nuovi orizzonti, ma offre anche nuove opportunità di intervento e nuove aspettative. Considerato che con la fertilizzazione in vitro è necessario stimolare le ovaie in modo da produrre più ovociti e quindi dar vita a più embrioni, una volta raccolti gli embrioni in sovrannumero il medico ha la possibilità di scegliere fra essi quelli che hanno un DNA sano, privo di qualsiasi mutazione genetica in grado di causare malattie più o meno gravi. Se tutto rimanesse su questo piano la genetica avrebbe il suo sicuro passaporto, e rappresenterebbe l’ancora di salvataggio da tante insidie della natura. La necessità di richiamare l’attenzione ad un uso oculato delle tecniche genetiche nasce, invece dal fatto che una volta individuati i processi di intervento essi possano servire per scopi più futili quali le manipolazioni per scegliere il sesso del nascituro o per determinarne alcune caratteristiche fisiche e di comportamento. La materia non si esaurisce in queste poche battute, investe problemi relativi all’uso che si può o non si può fare degli embrioni congelati e non utilizzati, quali sono i diritti della coppia o del partner il quale può riservarsi il diritto appunto di sottoscrivere contratti perché uova da lui fecondate non debbano essere usate in caso di divorzio; c’è la richiesta, da parte della donna rimasta vedova di avere un figlio dal marito defunto, utilizzando uova già fecondate e custodite nella Banca del seme. C’è tutta la controversia giuridica connessa con casi di madri che hanno messo a disposizione il loro utero e che poi si sono rifiutate di consegnare il frutto della loro gravidanza. C’è, infine, la vasta problematica connessa con l’aborto. Tralascio queste tematiche per rivolgere l’attenzione ad un altro punto "caldo" della bioetica: la conclusione della vita.

Ancora una volta gli interrogativi sono numerosi ed i più scottanti riguardano quando la vita può essere ritenuta degna di essere vissuta; quando è concesso staccare le spine e ritenere conclusa l’esistenza; è lecito l’accanimento terapeutico o è più giusto lasciare che la natura faccia il suo percorso; a chi spetta prendere decisioni così impegnative

Anche per questo aspetto parto dalla diversa impostazione del concetto di morte nel mondo occidentale e in quello orientale-cinese. L’antropologa statunitense Sankar sostiene che nella cultura occidentale vecchiaia e malattia sono strettamente congiunte sicché ogni malattia in età anziana viene ritenuta una diretta conseguenza dell’anagrafe del soggetto. In altri termini i vecchi sono ritenuti naturalmente "soggetti a rischio di morte" la qual cosa induce a ritenere ogni forma di cura superflua o al più un palliativo, un espediente per ritardare l’incontro della vita con la morte. Lo dimostrano le condizioni di estremo degrado dei reparti di lunga degenza e gli ospizi per anziani soli. A questa situazione fa da contraltare una presenza massiccia di terapie con lo scopo evidente, anche in questa ipotesi, di ritardare al massimo il momento dell’abbandono definitivo. Gli interventi terapeutici ad oltranza testimoniano ulteriormente che la vecchiaia è ritenuta una malattia da combattere.

L’interesse con cui vengono seguite le informazioni che i mezzi di comunicazione di massa ci danno sul prolungamento della vita media dell’uomo e le attese per ulteriori conquiste tese a strappare anni dalle mani di questa signora di nero vestita; quell’interrogare gli scienziati per conoscere fino a che limite la vita possa arrivare, sono la conferma di questa lotta ingaggiata contro il male-vecchiaia, che si vorrebbe esorcizzare così come si esorcizza appunto il maligno.

Per la cultura medica della tradizione cinese, al contrario, la vecchiaia di per sé non sembra costituire un elemento che dia diverso senso alla malattia e per conseguenza non altera l’intervento terapeutico. Se un anziano è malato ha diritto di essere curato come qualsiasi altra persona giovane, mettendogli a disposizione tutti gli stessi strumenti e tecniche terapeutiche. Se, invece, è vicino alla morte e non esistono più speranze di vita, allora il malato, che sia giovane o vecchio, viene lasciato morire sia pure con accanto una persona che possa assisterlo fino all’ultimo. La Sankar per dimostrare la diversità di atteggiamento del medico cinese di fronte alla morte riporta il caso di una suora buddista di 86 anni invalida, che, in conseguenza di un attacco di cuore rimane totalmente paralizzata. Le consorelle la trasferiscono nella stanza più luminosa e più ariosa del monastero: "la stanza delle tavole degli antenati, scelta non solo perché rende più facile alle altre occuparsi di lei, ma per facilitare la sua anima se questa volesse scegliere di partire. Poiché questo non avviene in tempi brevi, le amiche e colleghe si riuniscono per decidere il da farsi, anche perché le cure richieste dalla malata impediscono alle altre di dedicarsi alla preghiera". Qualche consorella suggerisce di inviare la malata in un ospedale occidentale, ma tutte le altre si oppongono perché questo vorrebbe dire sottoporla a cure che ne prolungherebbero la vita, ma accentuerebbero le sofferenze. La decisione ultima è di chiamare una suora giovane che assista di notte la malata, la quale viene inviata nella casa dei morenti, qui viene deposta su una stuoia, assistita di giorno da altre suore, le viene somministrata quotidianamente acqua fino a quando sopraggiungerà "sorella morte".

Il racconto ci vuole dire che "nella medicina tradizionale cinese la vecchiaia non conferisce uno statuto a parte agli individui, i cui malanni vanno trattati come tali; ma una volta che si presenta la morte, questa va accettata e accompagnata: non esiste in quella cultura medica lo statuto di anziano, mentre quello di morente - colui per il quale la medicina non può che ritardare la morte, ma non recuperare la vita - legittima un ritiro della medicina stessa. [...] Perciò il problema è relativo alla valutazione della capacità della medicina di non contrastare la morte, ma di far durare una vita "degna"". La narrazione ci introduce direttamente su un altro discutibile fronte che è quello del medico che decide di staccare le spine. Sappiamo, anche da casi molto recenti e dei quali i mezzi di comunicazione di massa ci hanno riferito ampiamente, quanto sia difficile, soprattutto da parte dei familiari, accettare quella decisione che nella nostra cultura è vissuta come una sconfitta della speranza.

Dagli esempi riportati emerge con chiarezza che il concetto di vita e di morte sono strettamente legati non solo agli aspetti meramente biologici, ma investono la tutta la storia e la cultura di un popolo, il suo stile di vita, la sua religione. Un’altra testimonianza che la morte, per il mondo occidentale si identifica con la malattia ci è offerta dalla pratica giuridica a cui fanno appello Stati Uniti e Canada. In questi paesi è possibile che il cittadino esprima, attraverso una sua memoria scritta che porta la denominazione di "testamento biologico", la sua volontà di interruzione delle tecniche terapeutiche e di eventuale prelievo di quegli organi che possono essere espiantati. Anche in Italia è stata proposta e credo varata una legge del tutto simile. A questo proposito leggiamo nel volume di Gianna Milano che è il nuovo concetto di cadavere, come conseguenza delle sempre più sofisticate tecniche terapeutiche, a stimolare numerose riflessioni etiche. Spetta al paziente decidere se combattere fino in fondo o rassegnarsi al fallimento, ma può il medico accettare la decisione presa consapevolmente dal malato di porre fine alla sua esistenza?

La posizione della Milano, di fronte a questo interrogativo è esplicita e chiara: "Spetta al paziente, nella sua autonomia, individuare un limite: sua deve essere la volontà di non intraprendere o interrompere una terapia anticipando il momento della fine (eutanasia passiva). Ma non può chiedere che gli venga praticato un trattamento che abbrevi la sua vita (eutanasia attiva) o di essere assistito nel suicidio. Entrambi gli interventi sono in profonda contraddizione con la professione medica, con la sua deontologia. E sono pienamente concorde con la Milano nel ritenere che ogni licenza concessa su questo fronte apre il discutibile capitolo dei possibili abusi che vanno dall’eutanasia eugenetica all’abbandono dei morenti da parte della società tutta. La nostra giornalista-specializzata guarda con occhio attento a quanto quotidianamente avviene nel mondo; è consapevole che esistono casi così drammatici che talvolta sono gli stessi familiari a chiedere la risoluzione della vita dei propri congiunti per troppo tempo rimasti in uno stato vegetativo, ma non può dare una risposta positiva visto che la letteratura riporta situazioni di pazienti che sono usciti dal coma dopo periodi lunghi anche un anno e più. Ecco allora un ennesimo interrogativo: quali possono essere i criteri sui quali basarsi per ritenere un soggetto morto? Le ultime norme giuridiche (ma è possibile affidare un evento di tale portata alla legge?) stabiliscono che il soggetto può essere dichiarato morto quando sono intervenute la morte corticale e quella del tronco del cervello, vale a dire quella parte deputata alla regolazione della respirazione e della temperatura corporea. Accanto a questa tesi si snoda quella molto più problematica che è di David Lamb e Tristam Engelhardt, i quali sostengono che è sufficiente la morte neocorticale a far ritenere il soggetto praticamente defunto, venendo meno le caratteristiche che consentono al soggetto di essere considerato "persona". Proprio queste due tesi così vicine, ma anche così diverse fra loro debbono suggerire un atteggiamento più prudente; debbono richiamare ad una maggiore cautela. Se posso richiamare un concetto già espresso, sia pure formulandolo diversamente, direi: attenzione a non fare in modo che l’entusiasmo per le conquiste scientifiche e tecnologiche non ci faccia scivolare in una considerazione meramente economica del nostro corpo. Che non si arrivi a considerare cioè il corpo una merce da esporre su un banco da supermercato o la sciarlo alla mercé di uno sperimentatore senza scrupoli. Non sono contro la sperimentazione, anzi non sarei professore universitario se non credessi nella ricerca e non godessi delle continue vittorie che la medicina va compiendo, ma mi augurerei tanta pensosità in chi dispone della vita dell’uomo. Mi piace concludere questa lunga conversazione, peraltro carente in molte sue parti, con tanti altri aspetti trascurati perché il tempo non mi consente di dilungarmi ulteriormente, con le illuminanti parole di Elio Sgreccia:

"Non si può sciogliere e dissolvere la persona umana e i suoi valori in una serie di scelte, senza una sorgente da cui le scelte promanano e senza i contenuti di valore che esse esprimono. [...]

Il corpo non è semplicemente un oggetto che si può toccare, pesare, scomporre; è anche e anzitutto parte coessenziale del soggetto, cioè della persona. La persona si incarna nel corpo e con il corpo nel tempo e nello spazio; nel corpo e attraverso il corpo riceve la sua individualità e differenziazione - diviene quell’uomo o quella donna -; nel corpo e con il corpo si manifesta e comunica nella società dei suoi simili - diventa complessi di segni e linguaggi -; nel corpo la persona trova il suo limite - il dolore fisico o la morte si celebrano nel corpo, ma coinvolgono la partecipazione di tutto l’essere personale. La persona, intesa come io, travalica il corpo, è più ricca della corporeità e la trascende, ma con il corpo vive un’unità sostanziale".

"Più la medicina e la professione medica hanno incrementato conoscenze e potere sugli uomini, e più il malato da "soggetto" è diventato "oggetto" di cure. [...] Quanto più si affinano le tecniche di terapia, tanto più l’accesso alla tutela della salute si trasforma in un problema di distribuzione delle risorse. Esistono priorità sanitarie nel bilancio di uno stato che diventano scelte politiche. Discriminazioni sociali ed economiche possono rendere drammatiche certe decisioni: si deve puntare sulla salute per tutti o solo per pochi? .... (Cfr. Gianna Milano, Bioetica, p. 20 e segg.)

 

[Ripensando al problema della clonazione vedi: G. M. BERTIN,Costruire l’esistenza, p. 16, diritto alla differenza e ancora p. 75 perché molto importante]

Jonas sostiene che l’etica tradizionale, ritenuta una guida necessaria per compiere alcune determinate azioni per cui venivano identificati dei principi-guida ai quali era doveroso ubbidire, non risponde più alle esigenze attuali. <<... il mutamento dell’agire umano esige anche un mutamento nell’etica>>
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