ALLA RICERCA DEL BENESSERE: LE MEDICINE COMPLEMENTARI[1]

 

 

Dr.ssa Elena Garancini, Sociologa

Dr.Luigi Gioia, Anestesista e Agopuntore Ospedale S.Raffaele di Milano

 

 

Riassunto: Nel corso degli ultimi decenni si stanno diffondendo nel mondo occidentale, in maniera sempre più evidente, vari tipi di trattamenti, rimedi e filosofie terapeutiche adottati come cure per una serie non trascurabile di problemi e disturbi clinici. Scopo del presente lavoro è quello di indagare le motivazioni che spingono gli utenti verso queste terapie.

Parole chiave: Medicine non Convenzionali, caratteristiche della utenza, Medicina Integrata

 

Abstract: In the course of the last decades they are being diffused in the western world, in more and more obvious way, you vary types of treatments, remedies and therapeutic philosophies adopt to you as cures for a not negligible series of problems and disturb clinicians. Scope of the present job is that one to inquire the motivations that push the customers towards these therapies.

Key word: Unconventional Medicine, characteristic of the user, Integrated Medicine.

 

 


 

1        Trasformazioni sociali e medicine complementari

 

AbruzzoNel corso degli ultimi decenni si stanno diffondendo nel mondo occidentale, in maniera sempre più evidente, vari tipi di trattamenti, rimedi e filosofie terapeutiche adottati come cure per una serie non trascurabile di problemi e disturbi clinici.

Questo insieme di pratiche, molto articolato, viene denominato nel suo complesso con termini vari: medicine alternative, complementari, integrative, non ortodosse, olistiche e dolci.

Il principale elemento comune a questi approcci, eterogenei e a volte in contraddizione tra loro, è di fatto di avere radici estranee al modello adottato dalla moderna medicina scientifica, considerato come paradigma di riferimento nei paesi occidentali.

Nei paesi in cui le statistiche sono disponibili, la medicina complementare viene utilizzata dal 20% al 50% della popolazione e la sua popolarità cresce con il passare del tempo.

In diversi paesi della Comunità Europea queste medicine trovano, talora, spazio nelle prestazioni dei servizi sanitari pubblici, nel sistema della formazione del personale sanitario, e soprattutto nel mercato sanitario privato.[2]

Nonostante la crescente importanza di questo fenomeno, è ancora difficile creare una definizione unica ed esaustiva per l’insieme di queste pratiche eterogenee, tali terapie vengono oggi etichettate in diverse modalità: alternative, complementari, tradizionali o non ortodosse.

Scopo principale della mia tesi di laurea, discussa presso la facoltà di sociologia dell’università Bicocca di Milano, è stato quello di indagare le motivazioni che spingono gli utenti verso queste terapie.

Tali motivazioni sono individuabili nelle principali differenze di approccio tra il paradigma biomedico e le medicine complementari.

In particolare: visione olistica, modalità di interpretare salute-malattia e la relazione tra terapeuta e paziente.

Visione olistica significa postulare l’esistenza di una sola realtà dove materia e coscienza sono due espressioni di un'unità indivisibile: la  vita umana prende forma all’interno di tale continuum dal quale non può prescindere.

Ogni medicina che consideri e cerchi di curare l’essere umano come totalità di mente, corpo e anima può essere considerata olistica.

Da questa concezione di uomo, la salute e la malattia implicano l’integrazione e l’armonia di tutti i livelli di esistenza, di conseguenza anche la diagnosi e il trattamento terapeutico devono aver coscienza di ciò e saper intervenire al livello appropriato. 

L’olismo non prevede necessariamente modi alternativi di cura e non esclude che i medici tradizionali possano essere olistici, l’importante è che corpo e mente siano considerati come parte di un tutto.

In merito alle modalità di interpretare i concetti di salute e malattia si riscontrano importanti differenze tra i due paradigmi.

Il modello biomedico, nella sua versione più ortodossa, propone un’immagine specifica del funzionamento biologico e dei processi patologici che porta a considerare il funzionamento corporeo complessivo come il risultato del funzionamento dei singoli organi, tessuti e cellule.

Questa visione porta ad un accentuato riduzionismo biologico: la scienza ci spiega perché ci si ammala, ma non giustifica la ragione della malattia.

Nella medicina ufficiale è difficile definire il concetto di salute, viene interpretato come una devianza dalla malattia.

Diversamente, gli approcci complementari, partano da una prospettiva opposta vedendo la malattia come una devianza dallo stato di salute.

In questa prospettiva la salute risulta uno stato di equilibrio che viene mantenuto attraverso l’interazione continua dell’individuo con il suo ambiente di vita.

Anche in merito al concetto di malattia, la medicina ufficiale non ha una teoria generale in proposito, ma molte teorie specialistiche per ogni settore.

Questa situazione disgregata non è presente nelle medicine complementari, dove la malattia viene definita come uno stato di squilibrio tra l’uomo e il suo ambiente.

Nonostante la complessità della condizione di malato, gli obiettivi terapeutici della medicina scientifica  sono spesso indirizzati solamente alla cura della patologia, senza attribuire un senso all’esperienza della malattia, intesa come avvenimento che modifica la nostra vita individuale e collettiva.

A differenza della medicina biomedica, quella complementare cerca sempre di dare un significato alla malattia che viene interpretata come un processo che si manifesta con determinati sintomi; il processo e i sintomi sono degli alleati che indicano il percorso che l’individuo sta percorrendo, segnano la direzione da seguire sia sul piano fisico che emotivo e psicologico.

La perdita di considerazione di questi elementi da parte della medicina ufficiale, sembra uno dei principali motivi di allontanamento da essa e di spinata verso le medicine complementari che privilegiano una visione olistica dell’individuo.

Da queste differenze sostanziali tra i due approcci deriva una diversa relazione tra il paziente e il terapeuta.

Ai fini di una proficua relazione tra medico-paziente, il sapere ascoltare svolge un ruolo centrale: lo specialista deve saper farsi “recettore” di tutto ciò che un paziente “porta” e cioè come descrive il problema, quali vissuti emotivi ha in questo, quali sono le sue interpretazioni, quali sono le sue paure e le sue speranze.

Il medico deve saper anche comunicare, spiegare cioè al paziente come procederà l’iter diagnostico, chiarendo il significato degli esami e in fine quale sarà la terapia.

Nella società dell’individualità, anche la malattia deve essere considerata come un’esperienza unica in un preciso percorso biografico: non può essere trattata solamente con metodologie standardizzate che non considerano minimamente le peculiarità dell’individuo.

Oggi la malattia, per essere concepibile, deve essere “un caso particolare all’interno di una vita particolare”, riconducibile a ciò che è noto, ma irrimediabilmente diversa in alcuni suoi tratti specifici, nella sua genesi o nel suo concreto manifestarsi.

I terapeuti complementari ripongono l’accento sull’individualità del paziente, attraverso un’anamnesi approfondita e sull’ unicità dell’esperienza, considerano i pazienti come persone e non come casi clinici.

Anche nella medicina ufficiale la diagnosi occupa una parte molto importatane, ma ha una funzione essenzialmente diversa: non si preoccupa di comprendere l’uomo nella sua totalità, ma di descrivere minuziosamente i sintomi del paziente per riconoscere una patologia ben precisa.

Una corretta diagnosi deve essere orientata a cogliere non la ragione localizzata del sintomo, ma le cause più profonde e non sempre immediatamente visibili che lo hanno creato.

Il sintomo annuncia, parla, comunica, ma il suo linguaggio non è mai immediato e preciso.

La diagnosi, più che la capacità di identificare i meccanismi patogeni, deve diviene una pratica ermeneutica, richiede la capacità di interpretazione di un linguaggio complesso, spesso allusivo e simbolico.

Questo linguaggio non è mai espressione di un singolo organo, ma esprime l’individuo nella sua totalità, ignorare questo fattore, come tende a fare la biomedicina con la sua azione di intervento diretto sul sintomo, non risolve il problema, ma semplicemente lo occulta.

Da un punto di vista terapeutico ne consegue che la medicina complementare cercherà di porre fine allo squilibrio attraverso la riarmonizzazione delle energie vitali, mentre la medicina scientifica si preoccupare di sconfiggere gli elementi che stanno distruggendo il corpo.

Il paziente deve essere aiutato a trovare dentro di sé il significato della propria malattia e le energie necessarie per contrastarla, deve essere messo in condizioni di trovare un nuovo equilibrio.

Anche in base a questa diversità di interpretare la diagnosi, deriva una differente relazione tra medico e paziente.

Nelle medicine complementari il soggetto è molto più attivo, il terapeuta diventa un consigliere, perché il paziente deve trovare dentro di sé la forza di reagire alla malattia per non rendere vana qualsiasi cura.

Il processo di cura e di superamento del malessere non può essere azione del solo medico, la malattia, essendo il risultato di uno squilibrio personale, richiede un intervento attivo del malato perché comprenda la propria situazione, diventi consapevole del suo stato e dei motivi che lo hanno causato.

 

2        Medicine complementari in Italia: indagini ISTAT

 

In merito alla diffusione delle medicine complementari sul territorio italiano, alcuni dati in proposito sono disponibili grazie alle indagini dell’ ISTAT sullo stato di salute della popolazione italiana.

In particolare, nell’ambito dell’indagine ISTAT: “ Condizione di salute e ricorso ai servizi sanitari” del 1994 sulle condizioni di salute degli italiani e il ricorso ai servizi sanitari, è stata riservata una sezione alle medicine complementari.

Dall’inchiesta è emerso che l’8%, cioè circa 5 milioni di persone, ha sperimentato una delle tre terapie in esame almeno una volta tra il 1991 e il 1994.

Analizzate singolarmente risulta che l’omeopatia è la più utilizzata, (oltre 2 milioni e 600 mila persone), seguita dalla fitoterapia (2 milioni e 100 mila) e dall’agopuntura (1 milione e 600 mila).

È importante notare l’incremento nei tre anni di studio delle persone che si sono affidate a queste cure, l’incremento maggiore si è registrato nel campo dell’omeopatia il cui utilizzo è passato da 25 per mille abitanti nel 1991, a 46 per mille abitanti nel 1994.

Più in generale, confrontando i rapporti ISTAT del 1994 e del 2001, possiamo notare come l’utilizzo di terapie complementari nel nostro paese sia quasi raddoppiato (da 8,30% a 15,60%) nel giro di 7 anni.

Grazie ai dati raccolti da questa indagine[3], è stato possibile tracciare un identikit della persona media che utilizza medicine complementari: risiede maggiormente al Nord, ha un livello di istruzione medio-alto, è prevalentemente una donna, si avvicina a queste terapie su consiglio del medico (30,9%), di propria iniziativa (27,2%), per informazioni ricevute dai media (4,6%); inoltre il 70% dell’utenza si dichiara soddisfatta.

Per quanto riguarda la distribuzione per fascia d’età:[4] l’omeopatia è più diffusa tra i pazienti giovani (età media 27 anni), mentre l’agopuntura è maggiormente presente nella fascia tra i 45 e 69 anni, grazie al suo utilizzo come analgesico.

Un altro importante contributo, per raccogliere informazioni in merito alla diffusione delle medicine complementari nel nostro paese, arriva dalla collaborazione  dell’ Istituto Superiore di Sanità con l’ISTAT, infatti il primo ha stanziato un miliardo e mezzo di lire per gli anni 2000-02 per finanziare il “Progetto terapie non convenzionali”.[5]

Gli obiettivi principali del progetto sono la raccolta sistematica di informazioni per poter analizzare e comprendere i presupposti e le motivazioni del crescente utilizzo delle terapie complementari; identificare e studiare possibili aree di rischio per la salute; raccogliere elementi oggettivi in merito all’efficacia, sicurezza e qualità di tali pratiche.

Grazie a questa collaborazione, una specifica sezione dell’indagine “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari” condotta nel periodo 1990-2000, è stata modificata, rispetto agli anni 1991 e 1994, per raccogliere maggiori elementi sul ricorso alle medicine complementari degli italiani.

Uno dei dati più significativi emersi da questa indagine è che 9 milioni di italiani (15,6%) ha fatto ricorso ad almeno una terapia complementare nel triennio 1997-99.

Sulla base dei dati disponibili a livello dei singoli stati, si stima che oltre un quarto della popolazione europea avrebbe fatto ricorso almeno una volta, nell’arco di una anno, ad un tipo di medicina complementare.

Rispetto alla situazione europea[6] l’Italia risulta ai livelli più bassi.

Altri dati interessanti, ricavabile dall’indagine ISTAT 1999-2000, riguardano i benefici ottenuti dalle singole terapie e la percezione dell’utilità dei metodi di cura complementari.

Tali dati sono particolarmente rilevante in quanto ci permettono di addentrarci nel campo delle motivazioni e degli atteggiamenti degli italiani in merito all’oggetto di studio.

 

Dai dati emerge che il livello di soddisfazione di chi ha sperimentato queste terapie è molto elevato, infatti quasi il 70% di coloro i quali hanno fatto uso dei diversi approcci terapeutici dichiara di averne avuto dei benefici.

I più soddisfatti sono gli utenti dei trattamenti manuali (77,6%), elevata anche la percentuale di soddisfatti tra coloro che hanno fatto uso di fitoterapia (74,6%).

Dai risultati è emerso che il 39,8% dei soggetti ritiene utile almeno una tipologia di cura complementare; il 23,1% ha espresso un giudizio negativo, mentre il 34,1% del campione dichiara di non essere in grado di esprimere un giudizio in merito.

A mio avviso questo dato è tra i più significativi, in quanto evidenzia la mancanza di informazioni adeguate, da parte del 34,1% del campione, per poter esprimere un giudizio.

A tutti gli intervistati è stato chiesto di motivare il giudizio di utilità precedentemente espresso; dai dati risulta che la principale motivazione è legata alla minor tossicità delle medicine complementari (71%), ciò pone in luce un atteggiamento di ridotta accettabilità da parte dei cittadini nei riguardi degli eventuali effetti collaterali legati all’utilizzo di terapie farmacologiche; mentre sembra ridimensionarsi il ruolo del rapporto paziente-terapeuta (13,2%).

 

3        L’agopuntura presso gli ospedali San Raffaele e Sacco di Milano

 

All’interno dell’Ospedale San Raffaele di Milano è attivo un ambulatorio  di agopuntura dal 1994, anno in cui questa pratica terapeutica è stata inclusa nei LEA[7], successivamente all’esclusione di essa dai LEA nel 2002, l’ambulatorio è stato chiuso per poi riaprire nel 2003 in regime di solvenza; tutt’oggi vi lavorano tre medici anestesisti rianimatori diplomati in agopuntura presso la scuola “So Wen”  e “Medicina” di Milano. 

La mia ricerca, svolta in ambito di tesi, ha avuto come attività predominante l’analisi di 23 cartelle cliniche riguardanti i pazienti in trattamento negli anni 2003-2004, cioè dalla data in cui l’ambulatorio è stato riaperto in regime di solvenza.

Dall’analisi delle cartelle cliniche ho potuto isolare le seguenti variabili:

§         Sesso

§         Età

§         Durata del trattamento

§         Anamnesi

§         Numero di sedute effettuate

§         Risultato terapeutico ottenuto

Grazie a questi dati ho potuto creare un identikit dell’utente medio, vedere quali sono le patologie più frequenti, stimare la tempista media dei trattamenti ed avere indicazioni statistiche in merito all’efficacia dell’agopuntura.

 

IDENTIKIT DELL’UTENTE MEDIO:

 

 

§         ETA’ : 47 anni femmina; 55 anni maschio

§         SESSO: 65,2% femmina; 34,8% maschio

§         TEMPISTICA MEDIA DEL TRATTAMENTO:

            Durata: 2 mesi

            Numero sedute: 5

§         PATOLOGIE PIU’ FREQUENTI:

           Cefalee e Cervicalgie: 35,4%

           Dolori articolari: 32,5%

           Atro: 32,1%

 

§         RISULTATO MEDIO OTTENUTO:

           Benefici: 45,4%

           Benefici solo in parte: 32,5%

           Nessun migliorameto: 6,2%

           Non completano la terapia: 15,8%  (abbandonano il trattamento dopo 1 seduta)

 

 

Unendo l’identikit dell’utente di sesso maschile e quello femminile è possibile creare il profilo dell’utente medio in generale: persona di mezza età, prevalentemente donna che riesce ad ottenere un buon risultato dalle sedute terapeutiche.

Non si riscontrano particolari differenze tra i due sessi, una lieve diversità si verifica nelle patologie trattate, oltre alla variabilità dovuta al genere, nelle donne sono maggiori le problematicità legate a dolori articolari, risultati che confermano le statistiche nazionali, in quanto le donne sono più soggette a problematicità come osteoporosi ed artrite.

Altro dato significativo è il grado di benefici ottenuti dai pazienti che arriva al 77,9% contro un 6,2% di utenza che non ha ottenuto nessun beneficio.

Data la scarsità di informazioni ottenibili dall’analisi delle cartelle cliniche in merito alle motivazioni che hanno portato i pazienti a rivolgersi all’agopuntura, ho ampliato l’analisi utilizzando i dati raccolti dal centro So Wen presso l’ambulatorio di agopuntura dell’Ospedale Sacco di Milano.

Con questi dati viene confermato e ampliato l’identikit, precedentemente tracciato utilizzando i dati disponibili dalla ricerca al San Raffaele sul paziente medio.

Si tratta principalmente di una donna per il 75,76% dei casi, con un livello medio-alto di istruzione per il 43,43%, con un’età superiore ai 40 anni per l’82,82% e con un’attività lavorativa per il 53,54% dei casi.

Emerge che le persone che si sono rivolte all’agopuntura lo fatto su suggerimento dei conoscenti (37,37%), medici (30,30%) e media (25,25%); a mio avviso il dato più interessante è il 30,30% dei medici, in quanto sottolinea una certa apertura di questa categoria verso le medicine complementari.

Questo dato conferma le trasformazioni in atto nella figura del medico che sempre più deve essere pronto ad ascoltare, consigliare il paziente, e dove ritenuto necessario, indirizzarlo verso forme di cura che esulano dal paradigma biomedico.

Infatti il numero di medici e farmacisti che acquisiscono qualche forma di competenza in questi settori sta rapidamente aumentando, con un ovvio interesse da parte degli ordini professionali e delle autorità sanitarie del settore, per prevenire abusi e distorsioni del mercato.

Confermando i dati della ricerca al San Raffaele, l’89,89% del campione si è dichiarato soddisfatto dal trattamento ottenuto.

Tale dato è da prendere seriamente in considerazione nel valutare l’efficacia di questa tecnica che, soprattutto per le malattie croniche, risulta davvero molto valida, senza presentare effetti iatrogeni tipici dei farmaci di sintesi.

Non a caso l’assenza di controindicazioni è una delle cause principali che porta le persone a ricorrere alle medicine complementari, come sottolineato dai dati dell’indagine multiscopo dell’ISTAT: “ Condizione di salute e ricorso ai servizi sanitari” del 1999-2000, il 71% del campione ha risposto di ricorrere alle medicine complementari in quanto non presentano effetti collaterali.

Concludendo questa analisi posso affermando con una certa sicurezza che lo sviluppo delle medicine complementari è in buona parte legato alle carenze della medicina biomedica e al crollo della fede incondizionata verso ciò che rispetta i canoni di scientificità.

Il fenomeno sociale delle medicine complementari solleva molte questioni e punti interrogativi, ma soprattutto ci costringe a mettere in discussione parte delle certezze su cui si è sviluppata la società occidentale negli ultimi secoli.

L’obiettivo che deve avere il dibattito, in continua espansione, attorno al fenomeno delle medicine complementari deve essere quello di cercare una via per intervenire sull’attuale sistema di cura  per poter rispondere alle nuove esigenze dell’utenza, per garantire i loro diritti, offrire prestazioni appropriate, finalizzate alla soddisfazione di bisogni non solo organici, ma anche psicologici, sociali e relazionali.

Solo attraverso il concetto di medicina integrata, intesa come “ricostruire i valori fondamentali che sono stati erosi dalle forze sociali ed economiche”[8], sarà possibile riconquistare l’integrità della vita umana recuperando l’ideale di benessere come stile di vita.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

 

-         B.Brennan, Luce emergente, Longanesi & C., Milano 1993.

-         B. Brennan., Mani di luce, Longanesi & C., Milano 1987.

-         C. Corbellini, Agopuntura: una terapia antica per l’uomo postmoderno, New Press,Como 2003.

-         D. Kunz, Terapie spirituali, Red edizioni, Como 2000.

-         E. Clombo, P. Rebughini, La medicina che cambia, Il Mulino, Bologna 2003.

-         G. Beau, Medicina cinese, Edizioni di Red, Como 1989.

-         G. Fasani, A. Spaviani, Come curarsi con i minerali, Fabbri Editori, Milano 2003.

-         G. Guizzardi, La scienza negoziata, il Mulino, Bologna 2002.

-         J. Darras, Conoscere l’agopuntura, I Garzanti, Milano 1975.

-         L. Di Chiara M., Agopuntura: l’antica scienza cinese della salute, Fenice 2000, Milano 1995.

-         L. Speciani, L’uomo senza futuro, Ricerche Mursia, Milano 1976.

-         M. E. Campanini, Medicina naturale, Fabbri Editori, Milano 2000.

-         N. Losi, Gli amici dell’acqua, Franco Angeli, Milano 1990.

-         P. C. Pietroni, Guida alla medicina naturale, Selezione dal Reader’s Digest, Milano 1993.

 

 

 

 

 



[1] Tesi di laurea discussa nel 2005 alla Facoltà di Sociologia dell’Università Bicocca di Milano sulle motivazioni che spingono i pazienti  verso le Medicine Complementari.

[2] Dal articolo di “La Repubblica”, Grande apertura alle medicine non convenzionali, 2/02/05, di Enrico Rossi ( assessore al diritto alla salute della Regione Toscana).

[3] Rapporti ISTAT 1994 e 2001.

[4] Ibidem

[5] Progetto coordinato da Roberto Racchetti, Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica, Istituto Superiore di Sanità.

[6] Indagine ISTAT: “ Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari 1999-2000”.

[7] LEA: livelli di assistenza minimi.

[8] Dal sito web: www.chimclin.univr.it