Nessuno è più esposto all’errore
di chi agisce soltanto per riflessione
(Vauvenargues, Riflessioni e massime)
E’ lo stupido quello che è sempre sicuro,
e l’uomo sicuro quello che è sempre stupido.
(Henry Louis Mencken, Prejiudices, Second series)
quando hanno scoperto la causa di una malattia,
hanno anche scoperto il modo di curarla.
(Cicerone)
Riassunto: Sebbene esistano varie e differente metodologie che contraddistinguono da un lato la Medicina Scientifica, dall’altro le Medicine non Convenzionali, tradizionali e non, è possibile, di là dal naturale confronto, trovare elementi di integrazione, peraltro necessari dall’attuale sviluppo ed orientamento certamente più pacati e dialettici che in passato. Riprendendo precedenti discorsi l’articolo si preoccupa di inquadrare e definire la questione, fornendo linee-guida di tipo razionale.
Parole chiave: medicina scientifica, medicine non convenzionali, metodologia, salute, malattia.
Summary: Although they exist several and different methodologies that they define the Scientific Medicine on one side, from the other the not Conventional, Traditional Medicines and not, are possible, beyond to the natural comparison, to find integration elements, moreover necessary from it puts into effect them development and guideline sure more soothes to you and dialectic that in past. Resuming previous speeches this article it is taken care to frame and to define the issue, supplying lines guides of type rations them.
Key words: scientific medicine, not conventional medicines, methodology, health, disease
Esistono molti possibili approcci per ogni problema di salute e questa suona affermazione lapalissiana.
La richiesta da parte dell’utenza di approcci diversi da quello convenzionalmente applicato nelle strutture pubbliche sta crescendo vertiginosamente, imponendo anche alla Biomedicina l’esame e lo studio degli approcci “non convenzionali”. Pertanto le maggiori riviste scientifiche e mediche stanno con sempre maggior frequenza pubblicando lavori sulle cosiddette “medicine complementari ed alternative” (CAM nella letteratura anglosassone, “medicine non convenzionali” o MNC in quella italiana) (Bellavite et al, 2000). Come si deduce da questi lavori, la comprensione della logica che guida tali medicine è ancora in parte oscura e il dialogo tra le varie “medicine” è difficile e tuttora caratterizzato da prudenza, diffidenza e talora criticismo non scevro di pregiudizi.
D’altra parte sempre più medici conoscono e applicano contemporaneamente (o collaborano con chi li applica) vari approcci differenti: farmaci, chirurgia, medicine manuali e manipolative (comprese le varie scuole di rieducazione posturale), mesoterapia, agopuntura, omeopatia e omotossicologia, fitoterapia, terapia nutrizionale, floriterapia, psicoterapie, psicanalisi, meditazione, eccetera.
Che cosa fa scegliere quale sistema terapeutico applicare per un certo paziente? Cosa fa decidere quali sistemi terapeutici eventualmente associare nel singolo caso e come associarli?
E’ un’operazione che spesso facciamo, ma mi rendo conto, pensando anche alla mia personale pratica, che non saprei sempre dare una giustificazione rigorosa e logica.
Credo che occorra invece stabilire una logica di comprensione e di intervento. Una logica di dialogo, che faccia capire chiaramente perché un medico scelga l’approccio complementare e perché in quel momento e perché in quel modo.
Il discorso che voglio fare ora è teorico e molto schematico. Infatti ci sarebbero da dire davvero tantissime cose tutte interessanti ed importanti, ma mi limiterò ad esporre quelle strettamente necessarie per comprendere ciò che voglio dire: vorrei cercare di delineare il percorso di ragionamento che un medico si trova a fare quando ascolta la storia di un malato ed esamina l’obiettività disponibile, ragionamento che lo conduce alla scelta del “cosa fare” e poi del “come farlo”.
L’obiettivo che mi propongo adesso è quindi quello di chiarire a me prima che ad altri, per quanto a me possibile, i seguenti punti:
- come guardare alla salute di una persona?
- come guardare ad uno specifico problema di salute?
- quali logiche terapeutiche abbiamo a disposizione e quali mezzi?
- come scegliere qual è l’approccio migliore?
Cercando alla fine di ricavare qualche spunto utile, capendo come mettere in pratica ciò che si intuisce.
- COME GUARDARE ALLA SALUTE?
Prima questione, solo in apparenza astratta: una persona ha una malattia oppure è malata?
a) Se diciamo che una persona ha una malattia, significa che ha una individualità e caratteristiche personali stabili nel tempo che non si modificano per la comparsa di una malattia, la quale pertanto modificherà la persona solo per il tempo necessario a trattarla e per la parte da dedicare alle cure.
b) Se diciamo invece che una persona è (o diventa) malata allora intendiamo che la malattia è un’esperienza che coinvolge (e talvolta sconvolge) tutti gli aspetti dell’esistenza di quella persona: ne modifica il modo di percepirsi, di guardare al mondo, di progettare il futuro, di vivere gli affetti e modifica il valore che quella persona dà al tempo, alle cose, a se stesso, alla vita. Non necessariamente sarà una esperienza completamente negativa, ma certo impone di “cambiare prospettiva” per cui occorre aiutare il malato a cogliere il “senso” di ciò che vive e a trasformare l’esperienza della malattia in “bussola” che riorienta verso maggiore significato e pienezza dell’esistenza.
Dunque la risposta a questa domanda (ossia: “vedi il tuo paziente come una persona che ha una malattia oppure come una persona che è malata”?) condiziona il modo in cui facciamo i medici. La risposta dipende anche, come è intuibile, dal tipo di problema di salute che abbiamo davanti: una sindrome influenzale o uno strappo muscolare incideranno in modo diverso da una allergia o dalla scoperta di un diabete o dall’esordio di una malattia cronico-degenerativa o neoplastica. Tutto il discorso che stiamo facendo risulta più adatto in condizioni croniche che per affrontare un problema acuto. Ad ogni modo la prima risposta ci orienterà verso una condotta medica ideale di tipo tecnico (hai un problema e io ti do’ i mezzi – farmaci, interventi, protesi, eccetera – per risolverlo e tornare ad essere quello che eri prima). La seconda risposta orientera’ necessariamente verso orizzonti più ampi, verso un ruolo di assistenza lungo un cammino, occupandosi di tutti gli aspetti che la malattia modifica (la malattia ti cambierà e tu non sarai più quello che eri prima, ma ti aiuterò a fare in modo che tu sia migliore). In questo secondo caso la multidisciplinarietà è “obbligata” e ci troviamo incamminati verso un agire medico non protocollabile e aperto alla commistione di vari approcci medici contemporaneamente. Tuttavia tale apertura e “fantasia” terapeutica non può essere arbitraria e deve avere una logica, una base razionale e una certa standardizzazione: cura “umana” (oppure “olistica” oppure “integrata”) non significa né istintiva, né casuale, né irrazionale.
Cerchiamo adesso quindi di sintetizzare i possibili approcci, poi di studiare la dinamica di malattia e valutare l’approccio migliore nelle varie fasi di malattia.
- COME GUARDARE AD UN PROBLEMA DI SALUTE?
Quando si presenta davanti a noi un malato, noi abbiamo molte possibilità di relazione.
Da cosa dipendono queste possibilità?
a- dalla nostra storia personale e dalle nostre caratteristiche di sensibilità e strutturazione, le quali ci rendono più attenti a riconoscere determinati elementi rispetto ad altri (“riconosciamo ciò che conosciamo”) e ci rendono più o meno disponibili a confrontarci con essi (vedi per esempio: Balint , 1961; Mc All K, 1982 [†])
b- dalla nostra formazione medica, che ci ha insegnato a guardare in un certo modo e non in altri alla realtà della malattia e della salute (Madison DL, 1997; Moja EA et al, 2000; si possono considerare come esempio anche i lavori di Engel, che ha coniato, per criticarla, la definizione di “medicine disease centred” cui si oppone la visione di Balint di “medicine patient centred”: Engel 1977 e 1980)
c- dal tempo che abbiamo a disposizione per valutare quel singolo caso
Quindi siamo già arrivati a capire una cosa: guardiamo ad un problema di salute di un paziente in modo condizionato da vari fattori.
Non è questa la sede per sottolineare come imporre ai medici di svolgere tot visite nell’unità di tempo condizioni l’approccio con cui vengono valutati i malati. Ma anche l’incapacità di distacco condiziona l’approccio, così come all’opposto l’incapacità di “empatia”. Ecco la prima caratteristica dell’arte medica, quella da cui dipende tutto il resto dell’operato medico: la capacità di ascoltare, accogliere, farsi carico senza essere invasi o schiacciati da coloro che si accolgono. E’ sorprendente come l’iter universitario trascuri completamente una formazione in tal senso. Questo è il primo movente che spinge in genere un medico ad allargare i propri orizzonti interessandosi di approcci complementari: cerca chi gli insegni ad ascoltare in modo utile e a non perdere la ricchezza di informazioni che il malato comunica ma in genere il medico non sa decodificare.
Detto questo ci resta da esaminare, al di là delle caratteristiche del singolo medico, quali siano i possibili modi di guardare ad un problema di salute di un paziente. Vediamone alcuni tra i tanti.
1) livello somatico statico (approccio meccanicistico)
Di fronte ad un corteo sintomatologico, per capirne la causa e trattarla si cerca di comprendere, attraverso l’anamnesi, l’esame obiettivo e gli ausili diagnostici disponibili, a livello di quale organo vi sia un’alterazione e di quale alterazione si tratti, e di quale gravità sia, donde poi prescrivere una terapia che corregga o elimini il “guasto”. Che cosa è successo e dove si trova? Viene perciò indagato il presente di quell’organismo.
Come il paziente viva soggettivamente i suoi problemi non è sempre essenziale, importante è indagare la modalità di espressione della malattia nella misura in cui aiuta a comprendere i seguenti punti:
- quale è il problema,
- dove è localizzato
- che entità ha.
Facciamo un esempio molto banale. Donna in età fertile con pallore cutaneo, cardiopalmo, astenia marcata, freddolosità, fragilità delle unghie e dei capelli, mestruazioni abbondanti. Quanto detto è sufficiente per ipotizzare un’anemia sideropenica e non viene chiesto altro. Poiché l’anemia può dare debolezza di memoria, difficoltà di concentrazione, insonnia, irritabilità e altri sintomi aspecifici (aspecifici ma importanti per la qualità di vita della paziente), la loro eventuale presenza è compatibile con la diagnosi posta e non modifica la condotta terapeutica, pertanto non è fondamentale indagarli. L’esame emocromocitometrico e la valutazione del pool marziale saranno sufficienti per confermare la diagnosi, la somministrazione di ferro guarirà la condizione. Il caso è semplice.
Questa visione meccanicistica possiamo ritrovarla anche in approcci complementari come l’osteopatia e anche in parte nella visione tradizionale energetica dell’agopuntura.
Possiamo in generale dire che tale livello di indagine ricerca una alterazione “morfologica” dell’organismo e questo sia da un punto di vista strettamente organico macroscopico o microscopico (alterazione enzimatica, cellulare, tessutale, metabolica, eccetera) che posturale, che dell’impalcatura morfofunzionale energetica. Pertanto è, secondo me, scorretto interpretare la visione meccanicistica come una visione “materiale ed organicistica” in senso riduttivo. Si tratta piuttosto di una visione che fa risalire la causa di una alterazione funzionale ad una alterazione morfologica di qualche genere.
2) livello somatico dinamico (funzionale)
Pur essendo questo approccio ancora “somatico” e in certo modo “morfologico”, tuttavia va un po’ più in là: perché e quando è insorto questo problema? Rispetto alla prospettiva precedente si inserisce un elemento causale e temporale che dà una visione dinamica ed evolutiva del processo patologico.
La capacità di indagine strettamente “convenzionale” non riesce sempre a rispondere a queste domande. Infatti, di fronte a quadri complessi, non sempre le ricerche eziologiche risultano probanti (possono esservi movimenti anticorpali a titolo non significativo o alterazioni aspecifiche di determinati parametri, che non permettono sempre di ricostruire il percorso fatto dall’organismo per ammalarsi). Perché all’improvviso compare in un quarantenne una dermatite atopica? Perché alimenti da sempre tollerati ad un certo punto scatenano sintomi? Perché ad un certo punto compare febbre persistente associata ad astenia e poliartalgie senza elevazione degli indici di flogosi? E tanti altri possibili casi che ciascuno può richiamare alla mente dalla sua pratica clinica.
Coloro che praticano l’approccio funzionale e indagano l’organismo con metodiche diagnostiche non convenzionali (test bioelettronici di risonanza) raccontano spunti a mio avviso interessanti. La causa prima della malattia potrebbe, secondo questa visione, essere completamente diversa da quella per cui si viene consultati (Schimmel H, 1996). L’organismo sarebbe un “tutt’uno” e i vari distretti e organi tra loro collegati in modo che la perturbazione di un organo o distretto potrebbe venire compensata da altri distretti (vicariazione funzionale che permette al distretto primitivamente alterato di restare silente), i quali però alla fine, non riuscendo a sopportare il sovraccarico funzionale, andrebbero in crisi producendo sintomi. Oppure il distretto primitivamente perturbato potrebbe diventare fonte di disturbo funzionale per altri distretti con cui sia in relazione o di contiguità o di funzione o di risonanza energetica.
Per fare un esempio si può scoprire che la causa di convulsioni infantili risiede in una pregressa infezione mastoidea da streptococco che è guarita clinicamente ma non è stata “cancellata” e costituisce una “memoria biologica” perturbante che si ripercuote negativamente sulla corteccia cerebrale. Con indagine convenzionale (RMN, ricerca sierologica di anticorpi, eccetera) non c’è alcun modo di arrivare a questa conclusione perché stiamo parlando di cause apparentemente risolte. D’altra parte identico quadro neurologico può essere causato da molte altre cause “iniziali” localizzate primitivamente in sedi diverse dal mastoide (per esempio, persino intolleranze a latticini: Pelliccia et al, 1999), motivo per cui con la sola anamnesi non si può ricostruire con sicurezza il percorso patologico di quell’organismo. Infine, anche ricostruendo il percorso patologico, con l’approccio terapeutico convenzionale non si può migliorare la situazione, dato che (per restare all’esempio fatto) non è affrontabile con antibiotico una infezione pregressa e ormai superata clinicamente. Quindi, come si intuisce, questo approccio si basa su una visione funzionale che ricerca poi come scopo terapeutico la “modulazione” della reattività dell’organismo riportando “nei binari” fisiologici la capacità di trasmissione di informazioni biologiche dei tessuti e degli organi: questo si tenta di farlo utilizzando principi biofisici anziché biochimici e somministrando impulsi elettromagnetici oppure rimedi che si suppone agiscano per risonanza biofisica (rimedi omeopatici ossia estremamente diluiti e opportunamente dinamizzati).
Nonostante tutto questo discorso possa suonare “campato per aria” oppure tautologico (documentiamo le cause di malattia e impostiamo la correzione terapeutica attraverso un sistema diagnostico non verificabile con percorsi ufficialmente riconosciuti e perciò non dimostrabile in modo convincente), tuttavia lo studio attento della sconfinata letteratura sulla fisiologia della matrice del tessuto connettivo e sulle interazioni dei vari mediatori sistemici, neuroormonali e immunologici (per esempio: Trelstad RL, 1997; Lunardi C et al, 1998 e 2000) rende plausibile il ragionamento teorico che sostiene questa pratica. Pertanto questa logica (per ora confinata inevitabilmente ad approccio complementare o alternativo della medicina) risulta teoricamente interessante anche per chi pratichi solo la medicina convenzionalmente accettata.
3) livello psicosomatico (simbolico)
Con questo modo di leggere il problema di salute del paziente ci stacchiamo dalla visione biologica e guardiamo al corpo come al territorio in cui il soggetto vive la sua vita. Interpretiamo i disturbi clinici come un tentativo di esprimere o “scaricare” un disagio che deriva da incapacità di vivere a proprio agio la propria storia nel proprio corpo (per dare un esempio: Pucheu S, 1998). Pertanto la causa originaria del problema viene ricercata nel vissuto esistenziale del soggetto. Non vengono negate eventuali cause eziologiche biologiche, anzi esse vengono ammesse e trattate con gli strumenti terapeutici più idonei, tuttavia in questa visione si ritiene che esse siano sempre e comunque “secondarie” seppur precoci e che se non vengono rimosse le cause “prime” di perturbazione profonda, la cura potrà avere solo beneficio transitorio. Pertanto al trattamento farmacologico o chirurgico necessario nel breve periodo vengono affiancate tecniche terapeutiche diverse ritenute idonee a ristabilire armonia tra il vissuto del soggetto e il suo corpo, risanando le “fratture” e ricomponendo i conflitti. Vi sono poi varie scuole e tendenze interpretative e terapeutiche in tale direzione (cognitivismo, ipnosi, training e altre terapie di rilassamento e ascolto del “sé”, gesthalt-therapie, psicodramma, eccetera).
Il problema della lettura dei simboli è che essi hanno significato all’interno di un codice interpretativo di riferimento che può essere diverso nelle varie culture, per cui la lettura simbolica del corpo può non sempre coincidere nelle varie scuole e nelle tradizioni dei diversi paesi.
Per quanto riguarda la medicina cinese, l’interpretazione simbolica si basa sulla visione taoista (Pi Ch’en C, 1981; Boschi G, 1997; de Souzenelle A, 1999). In questa direzione grossi spunti di interpretazione simbolica del corpo li troviamo negli studi di Jean Marc Kespì e di Christian Rempp (e dei loro allievi come Massimo Selmi e Franco Cracolici), in quelli di Dante De Berardinis, Carlo di Stanislao e la Scuola italiana dell’AMSA e infine in quelli di Jeffrey Yuen (a titolo di esempio si vedano tra i molti lavori disponibili: Kespì JM, 1982; De Berardinis D et al, 1992; Di Stanislao C, 2000; Cracolici F, 2001; Remmp C, 2001; Simongini E et al, 2000; Yuen J, 2001).
Non vanno certo dimenticati i lavori “occidentali” (per esempio: Torras de Bea E, 1987; Solano L, 2001).
4) livello psicanalitico
Questo livello interpretativo dei problemi di salute avrebbe dovuto essere trattato (se avessi seguito una impostazione di tipo “storico”) prima del precedente: infatti tutte le impostazioni psicoterapiche e di lettura simbolica del corpo sono nate dalla visione psicanalitica nel tentativo di focalizzare il momento terapeutico su un solo aspetto della dinamica psichica alterata, quello ritenuto maggiormente responsabile del blocco. Tuttavia lo tratto dopo perché sto seguendo un percorso ideale che va dalla superficie alla profondità e dal somatico allo psichico e poi allo spirituale. La visione psicanalitica è profonda, complessa ed è difficile trattarla in poche righe, anche perché si è differenziata nel tempo in varie scuole molto diverse tra loro. Alla base c’è il riconoscimento di una componente inconscia di cui il soggetto non è cosciente né consapevole e dalla quale pertanto non sa difendersi. L’inconscio sarebbe la radice di tutte le pulsioni e ambizioni e condizionerebbe la percezione della realtà: in esso si depositerebbero tutte le esperienze esistenziali, in particolare quelle non sottoposte a rielaborazione razionale che il soggetto rimuove e apparentemente dimentica. Queste esperienze rimosse modificano l’inconscio e condizionano in modo occulto la reattività e le pulsioni del soggetto, potendo determinare blocchi, complessi, nevrosi e varie malattie. La terapia dovrà mirare a far riaffiorare a livello conscio le pulsioni inconscie, in modo che siano gestibili e controllabili dalla razionalità. Questo processo è lungo, complesso e a tratti rischioso in quanto deve mettere il soggetto di fronte alla propria intimità anche negativa, ma se la terapia riesce rende il soggetto consapevole e libero dai condizionamenti ricevuti dalle esperienze passate legate agli affetti, alla morale, alla religione (Banks CG, 1997) o alla storia.
Secondo questa prospettiva perciò, più che capire in generale il significato simbolico dei disturbi, occorre capire che significato abbiano nella storia individuale di quel soggetto, all’interno delle esperienze soggettive e del contesto esistenziale peculiare di quella persona (che può aver percepito in modo peculiare e perturbante cose che lascerebbero indifferenti altri individui) ossia che cosa il soggetto tenti di esprimere, chieda o cerchi di evitare nell’ammalarsi in quel modo e non in altri.
5) livello spirituale
Questo livello di analisi di un problema di salute a prima vista appare come il meno “medico” e ammetto che non mi è facile trovare il modo di parlarne. Non mi è facile per due ragioni: la prima è che siamo tutti un po’ condizionati dall’immagine del medico “laico”, l’altra che il territorio della spiritualità è maldefinito e vi si incontrano aspetti e realtà eterogenee e spesso “spurie”, per cui risulta difficile essere chiari, concisi e non fraintendibili. Tuttavia è indubitabile che la presa di coscienza che la dimensione psichica non è l’unica “non somatica” (es: Cunningham A, 2001) e che la nostra vita ha un significato essenziale di carattere spirituale sta riaffacciandosi prepotentemente nel panorama della letteratura dedicata alla salute e al benessere e credo che non debba essere ignorata dai medici (per esempio: Mc All K, 1982; Levin JS et al, 1986; Chopra D, 1991; Linn M et al, 1998; Tyrrel R, 1999; ). Accanto a testi divulgativi ad impronta “orientale” come per esempio i testi dell’indiano Deepak Chopra vi sono numerosi e altrettanto stimolanti testi divulgativi ad impronta “cristiana” scritti da medici (come Kenneth Mc All) e sacerdoti cristiani (come Robert Tyrrell), ampiamente diffusi in America e ora anche in Europa. Anche la letteratura scientifica specializzata si è interessata dell’argomento e si è occupata del ruolo che può avere la preghiera sul ripristino della salute in infartuati o dell’effetto di una dimensione spirituale attiva sul mantenimento della salute nella popolazione (per esempio: Harmon RL et al, 1999; Harris WS et al, 1999; Mc Cullough ME et al, 2000; Dal Bello-Haas V et al, 2000; Atwood KC, 2001; Morris EL, 2001), giungendo a conclusioni che non si possono ignorare di influenza positiva della dimensione spirituale (comunque intesa) sulla salute psico-fisica delle persone (sono inoltre in corso di pubblicazione ulteriori studi sulla bassa morbidità presente nei conventi claustrali sia in America che in Italia, per esempio).
Recenti lavori si chiedono seriamente se faccia parte dell’agire medico anche il parlare coi pazienti della dimensione spirituale (Vendecreek L, 1999, Cavalieri TA, 2001; Fallot RD, 2001) ed eventualmente come parlarne (Salladay SA et al, 1997; Penson RT et al, 2001; Webb TE, 2001). Tale problema pare maggiormente sentito in campo oncologico (Storey O, 2001; Taylor EJ, 2001; Chan CW et al, 2001; Krizek TJ, 2001) e psichiatrico (Fallot RD, 2001; Carone DA Jr et al, 2001; Salleh MR et al, 2002)
Ma vediamo in cosa consista questa prospettiva e come possa essere “decodificata” nei singoli casi.
La vita dell’uomo avrebbe, oltre ai significati contingenti a tutti subito chiari, anche un significato trascendente per cui la storia del singolo entrerebbe in un disegno più ampio di storia universale (Linn M et al, 1998), essendo tutti in qualche modo legati gli uni agli altri con reciproche ripercussioni possibili sia positive (ci aiutiamo reciprocamente ad evolverci) che negative (ci feriamo e scandalizziamo gli uni gli altri, creando delle ferite e dei traumi che ostacolano il cammino evolutivo di ciascuno). La responsabilità di ciascuno pertanto non sarebbe soltanto nei propri confronti, ma anche nei confronti degli altri e nei confronti dei posteri. E le sofferenze di ciascuno potrebbero non essere causate soltanto da “difetti” o “colpe” o “errori” o “pulsioni inconscie” del soggetto sofferente, ma essere conseguenza di errori o colpe di altre persone vicine al soggetto (per esempio colpe del marito che si ripercuotono sulla moglie e viceversa, o dei figli sui genitori, o dei genitori sui figli) o addirittura di antenati (si tratterebbe di “tare” spirituali ereditate oppure di influenze negative attirate da un membro della stirpe e che poi permarrebbero su quella famiglia finchè non vengano bonificate. Si veda ad esempio Mc All K, 1982). Per le visioni che contemplano la possibilità della reincarnazione, come quelle induista o buddista (che aleggiano nelle proposte della new e next-age) alcune sofferenze possono derivare da errori di precedenti vite, che generano un “karma” di tribolazione per poter “correggere” le mancanze delle esistenze passate (per un commento si veda ad esempio: Johnston W, 1981).
Sia pure con le peculiarità proprie di ciascuna visione, tuttavia tutte le prospettive hanno una tendenza comune: l’evoluzione del soggetto tende verso più alti gradi di apertura all’amore, al perdono e all’accettazione incondizionata del senso arcano della vita (o dell’Amore di Dio). In questa prospettiva dunque si dà meno importanza al tipo di sofferenza rispetto all’importanza che si dà a come il soggetto riesca oppure non riesca a viverla in atteggiamento di apertura all’amore per la vita e per Dio. La piena apertura alla Vita e a Dio coincide con uno stato di “benessere” che permette di sperimentare la pace e la pienezza esistenziale che derivano dalla scoperta del significato della realtà anche in presenza di mancanza di salute “clinica” (Van der Poel CJ, 1999; Scola A, 2001).
Queste tendenze interpretative si ritrovano anche in filoni psicoterapeutici non “spirituali” (come per esempio la psicoterapia esistenziale: Frankl VE, 1990). Qual è allora la differenza tra un cammino terapeutico “spirituale” ed uno psicologico? La differenza fondamentale consiste nel fatto che la psicoterapia mira a “riorganizzare” le risorse interiori del soggetto nel pieno rispetto delle credenze individuali (atteggiamento “laico”), invece la proposta di cammino spirituale si prefigge di aprire orizzonti completamente nuovi per il soggetto, facendogli scoprire la possibilità di “fare nuove tutte le cose” attraverso l’apertura alla grazia salvifica. Nelle visioni orientali tale “grazia” consiste nello scoprire il senso arcano cui tutto tende e nello scoprire che tale senso è buono. Peculiarità del cammino cristiano è invece quello di favorire un incontro personale col Redentore che opererebbe, nelle anime che lo desiderino, il miracolo della Resurrezione dalla morte parziale che ogni perdita o trauma comporta: in tal modo il soggetto riceverebbe forze che in sé non avrebbe e che renderebbero possibile una vita rinnovata attraverso la Riconciliazione con Dio e l’esperienza profonda del perdono verso se stessi, il prossimo e la storia (Monbourquette J, 1994).
La preghiera autentica, essendo apertura del cuore e disponibilità di accoglienza, permette di “bypassare” i blocchi e di approdare rapidamente a gradi di apertura e amore che richiederebbero anni di lavoro a livello psicoterapico, “liberando dai lacci della morte”, come dice San Paolo.
Come si può capire tale approccio è potenzialmente il più radicale, ma può risultare anche il più pericoloso, in quanto generalmente gestito fuori da ambiti medici e rischia di “manipolare” persone debilitate e perciò vulnerabili conducendole su sentieri che ne modificano radicalmente la percezione della realtà. Si spiega così come se da un lato si ascoltano tante storie di persone davvero guarite da “conversioni” autentiche alla vita dello spirito (Linn M et al, 1999), dall’altro si ascoltano altrettante storie di persone davvero “storpiate” da esperienze pseudoreligiose o mistiche (Banks CG, 1997) o paranormali e che perdono la loro peculiare e sempre da rispettare libertà di scelta perché plagiate da sette o gruppi (il fanatismo, essendo rigido, è contrario alla plasticità fisiologica necessaria a mantenere la salute, che coincide sempre con il massimo grado di capacità di adattamento alle variazioni). Ritengo che un medico, specialmente se aperto alla multidisciplinarietà, debba conoscere l’esistenza anche di questi cammini e le loro potenziali ripercussioni sulla salute.
- QUALI LOGICHE TERAPEUTICHE ABBIAMO E QUALI MEZZI?
Abbiamo visto quali possano essere gli atteggiamenti del medico che condizionano la sua percezione dei problemi di salute dei malati. Abbiamo poi visto alcune delle prospettive che possiamo adottare per guardare a questi problemi. Ora dobbiamo chiederci concretamente quali logiche terapeutiche possiamo avere. Procederò in modo forzatamente schematico e perciò grossolano.
Logica di “compensazione” o “controregolazione” o “soppressione”
Di fronte ad un danno l’obiettivo terapeutico che ci poniamo è quello di compensare il danno, ripristinare l’equilibrio il più ottimale possibile, sopprimere i sintomi e agire sui circuiti di controregolazione in modo da annullare gli effetti della perturbazione iniziale. Quando pensiamo all’azione della farmacopea occidentale (la cosiddetta medicina “allopatica”) ci troviamo di fronte a logiche di questo genere. Esempi ne possiamo fare molti: l’antipiretico per sopprimere la febbre, l’ansiolitico per annullare i sintomi dell’ansia, l’analgesico per sopprimere il dolore, l’antiipertensivo per abbassare i valori pressori elevati. Ma anche il massaggio per risolvere la contrattura muscolare, l’applicazione di plantari o tutori, l’agopuntura di tipo reflessologico e altri approcci meno convenzionali possono rispondere a questa logica. In generale questo approccio risulta molto valido nelle situazioni acute in cui si ha comunque nel tempo risoluzione definitiva del problema e la terapia deve solo supportare l’organismo finchè non giunga la guarigione, oppure al contrario nelle situazioni in cui l’organismo non sia più in grado di mantenere l’equilibrio e quindi occorra “imbrigliarlo” o “sostenerlo” cronicamente. Questi trattamenti in genere hanno effetto soltanto finchè li si applica, pertanto, nel caso l’affezione o lo squilibrio siano cronici (come nel caso dell’ipertensione arteriosa, per fare un esempio) il trattamento va protratto per tutta la vita o previsto a cicli periodici (come il massaggio per dolori cronici).
Logica di “correzione” del danno
Dopo (o accanto) aver “spento l’incendio” ossia ripristinato un apparente equilibrio fisiologico con scomparsa dei sintomi clinici, la terapia tenta di correggere la causa iniziale della malattia, in modo da risolvere il quadro clinico evitando le recidiva. Quindi in questa logica l’obiettivo non è annullare gli effetti ma risolvere la causa.
Anche qui gli esempi che si possono fare sono davvero molti: l’antibiotico per risolvere la causa di un’infezione, buona parte della chirurgia, le prescrizioni dietetiche e nutriterapiche che correggono cause alimentari (eccessi, carenze, deficit, allergie, eccetera), le tecniche posturali e manipolative, alcune tecniche psicoterapiche cognitivo-comportamentali, l’omotossicologia, eccetera. Lo scopo di questa logica terapeutica è quello di ripristinare un equilibrio funzionale stabile che non necessiti di trattamento cronico e continui supporti terapeutici.
Logica di “modulazione della reattività dell’organismo” o “rieducazione alla salute”
Questo tipo di approccio, apparentemente simile al precedente, in realtà mira, nel risolvere la causa dell’attuale problema di salute, a ristabilire un equilibrio forte e duttile, in grado di far fronte ad eventuali successive noxae senza ammalare. In questa direzione vanno le medicine cosiddette “complementari” che possono anche essere definite appunto “di modulazione” e che si rivolgono non solo ai “malati” in senso tipico, ma anche a coloro che presentano disturbi e quadri preclinici o predisposizioni a determinate malattie: omeopatia, omotossicologia, omeopatia di risonanza, agopuntura, floriterapia, fitoterapia energetico-costituzionale, antroposofia, meditazione trascendentale, psicoterapia, varie metodiche di riabilitazione funzionale di mantenimento. Ma anche la medicina cosiddetta allopatica (o accademica o impropriamente detta “ufficiale”) applica strategie di questo genere nel campo preventivo (dieta, esercizio fisico, supplementi vitaminici, immunostimolanti aspecifici, antiaggreganti, eccetera)
Logica di “reimpostazione della personalità” e cancellazione dei traumi esistenziali
Questa logica terapeutica potrebbe essere definita “di fondo” e mira a “ristrutturare” la persona quando traumi psichici oppure malattie invalidanti causano un ostacolo profondo e permanente che impedisce l’integrità fisica o psichica e quindi la salute piena. In tal senso si può pensare alla tecnica dei trapianti d’organo, o al cammino psicanalitico, all’omeopatia unicista ad alta diluizione (che mira ad annullare gli effetti delle perturbazioni patogene anche costituzionali) o ai vari cammini di “risincronizzazione” delle funzioni vitali dell’organismo (come la Meditazione Trascendentale, l’osteopatia, l’agopuntura di impostazione taoista) o a quelli “di elevazione spirituale” che permettono di by-passare l’ostacolo e a costruire la propria pienezza esistenziale con le facoltà residue (risincronizzando l’individuo con l’ambiente e con le proprie aspirazioni più profonde).
- COME SCEGLIERE QUAL È L’APPROCCIO MIGLIORE?
Di fronte alla molteplicita’ di possibili approcci si può provare un certo smarrimento: come scegliere qual è l’approccio più adatto al singolo caso che si ha davanti? Credo che (a parte le competenze specifiche maturate dal singolo terapeuta) la risposta possa essere questa: si sceglie in base a due variabili, ossia
1) in base al problema
2) in base alla fase di malattia (e di esperienza esistenziale).
1) In base al problema
Quando dico che la scelta dipende dal tipo di problema intendo una cosa davvero banale: se ci troviamo davanti (per fare degli esempi) ad una lombalgia sporadica o a una cistite episodica, oppure ad una tonsillite acuta l’approccio “meccanicistico” (comunque espletato) è il più adatto e consigliabile: in questi casi una lettura “dinamica” del problema oppure un’analisi simbolica sarebbe un errore, in quanto una inutile perdita di tempo oltre che un “deragliamento” rispetto alla richiesta del momento. Pertanto la risposta corretta al problema è (per esempio) la prescrizione farmacologica. Ma se ci troviamo di fronte al settimo episodio di lombalgia (oppure ad una lombalgia già trattata senza successo) oppure all’ennesimo episodio di cistite o di tonsillite acuta recidivanti, allora l’approccio deve cambiare e si deve andare alla ricerca di una causa differente (biodinamica, simbolica, energetica, posturale, eccetera) per cercare di risolvere definitivamente il problema.
2) In base alla fase di malattia ( o di esperienza esistenziale)
Il discorso sulla fase di malattia sarebbe molto lungo, seppure interessante e importante. Per approfondimenti rimando alla bibliografia segnalata (Bellavite P et al, 1995; Bellavite P, 1998; Semizzi M, 2000) limitandomi qui a riassumere schematicamente alcune tappe fondamentali.
Ogni processo cronico si evolve nel tempo e attraversa fasi caratterizzate da aspetti diversi. Questo accade sia a livello psicologico, che biologico, che esistenziale (e spirituale).
Cerchiamo di riassumere la possibile evoluzione di un processo patologico in generale.
Soffermiamo l’attenzione sull’adattamento patologico (Bellavite P, 1998). Esso è una evoluzione in un certo senso intermedia tra guarigione e continuo peggioramento auto-indotto, rappresentando un nuovo equilibrio, diverso dalla salute ma stabile, adattato alle circostanze. Ad esempio possiamo pensare all’ipertrofia cardiaca e alle modificazioni della funzionalità renale in corso di ipertensione, all’iperinsulinemia nell’obeso, ecc... L’economia generale dell’organismo è profondamente alterata, ma il sistema “tollera” questa situazione abnorme senza reagire (equilibrio apparente e provvisorio in quanto destinato a rompersi nel tempo). L’adattamento patologico è pertanto una fase della risposta dell’organismo in cui si verifica un momento “decisionale” molto critico, che scatta quando i sistemi reattivi non riescono a fronteggiare adeguatamente la noxa e a ripristinare rapidamente lo stato originario.
L’adattamento consente di “convivere” con la malattia, ma rappresenta, in un certo senso, una rinuncia alla guarigione completa. È chiaro che nella strategia terapeutica che tenda a portare l’organismo del paziente verso la guarigione si deve cercare di rimuovere o “by-passare” i blocchi costituiti dall’adattamento. La malattia cronica non è quindi in assoluto ed inevitabilmente irreversibile, ma la reversibilità è sempre molto difficile in assenza di corretti rimedi che aiutino il sistema a cambiare struttura e comportamento.
Occorre sottolineare un aspetto importante riguardante gran parte dei segni e sintomi della malattia e delle altre manifestazioni rilevabili mediante indagini laboratoristiche e strumentali: derivano non tanto dal danno diretto dell’agente eziologico quanto dalle reazioni dell’organismo, sia di tipo attivo (fasi acute) che adattativo (fasi croniche). I sintomi sono espressioni della malattia, ma non sono la malattia.
Un insulto patogeno di modesta entità induce un piccolo stress che provoca una reazione. Tale reazione minore decorre acutamente nel giro di poche ore o pochi giorni, mobilitando il sistema di difesa in modo sub-clinico, nel senso che si svolge prevalentemente senza provocare una “malattia”. Fenomeni di questo genere avvengono continuamente anche negli individui “sani”, per il semplice fatto che chiunque è esposto a stress ambientali. Anche le oscillazioni spontanee, più o meno caotiche, dell’omeostasi interna rappresentano un piccolo stress biologico perché costringono in ogni caso a continui sforzi di adattamento e di compensazione. Va sottolineato un concetto importante: senza stress non si ha neppure vita e si è dimostrato in molti modelli sperimentali che animali tenuti in condizioni omeostatiche ambientali ed endogene molto stabili, risparmiando qualsiasi sforzo adattativo, risultano talmente fragili da soccombere per un qualsiasi stimolo (Pancheri P, 1984).
In sintesi, quindi, partendo da un ideale stato di salute, si ha un primissimo stadio in cui un iniziale disordine, per lo più non apparente ad eccezione di sintomi molto sfumati o variazioni di parametri molto fini, rende l’organismo più suscettibile a perturbazioni indotte da agenti esterni. In seguito a stimolo patogeno adatto può a questo punto instaurarsi una malattia acuta. Se le “decisioni strategiche” dei sistemi omeostatici sono ottimali, la malattia “clinica” viene stroncata sul nascere e non si manifesta neppure, oppure viene facilmente superata.
Dove stanno le “decisioni” dei punti di biforcazione, sensibili quindi a piccoli ma determinanti fattori di regolazione? Esse risiedono fondamentalmente nella fase delle reazioni dei sistemi biologici omeostatici. Tali sistemi, soprattutto quello infiammatorio ed immunitario, ma anche i sistemi di detossificazione del fegato ed il sistema emostatico, e molti altri, hanno una “doppia faccia”, fanno guarire ma anche possono provocare danno: dipende dall’entità e dalla durata della reazione (Bellavite P et al, 1995; Bellavite P, 1998).
Spostandoci a considerare una patologia cronica, bisogna precisare che non tutte le malattie croniche si manifestano inizialmente come malattie acute, ma spesso si manifestano con lunghe fasi di fluttuazioni omeostatiche a livello sub-clinico.
La malattia cronica potrebbe essere vista come il risvolto negativo delle capacità di auto-organizzazione della materia vivente. Il sistema si riorganizza in un “nuovo ordine”, con le sue regole, i suoi controlli multipli e incrociati, una sua relativa stabilità. Questo nuovo ordine non trova in sé stesso l’energia per un ritorno allo stato di salute originario ma, anzi, dopo una perturbazione tende a ritornare al comportamento patologico (Bellavite P et al, 1995; Bellavite P, 1998; Bellavite P et al, 1998).
Questo discorso si adatta in generale sia al piano biologico, che a quello psicologico, che a quello esistenziale e spirituale: si tratta di uno schema generico, adatto a descrivere l’andamento temporale di qualsiasi processo cronico. Infatti anche l’esistenza si snoda per stimolazioni, cambiamenti, resistenze, crisi acute, adattamenti successivi, e anche nell’esistenza incontriamo dei “nodi” esistenziali, ossia dei momenti particolari in cui si impone una scelta dalla quale dipende come si svolgerà la vita da quel momento in poi (trasferimenti, matrimonio, scelta del lavoro, nascita dei figli, eccetera).
Le biforcazioni esistenziali.
Anche sul piano esistenziale possiamo dunque applicare lo schema appena descritto di evoluzioni e biforcazioni ossia “nodi” esistenziali in cui si “gioca” il destino di un’esistenza, modificandolo in modo più o meno irreversibile da quel punto in poi. Ogni biforcazione esistenziale corrisponde quindi ad una crisi e alla soluzione scelta per uscirne.
Credo che ad ogni biforcazione siano possibili tre tipi di scelta che forse possiamo provare a schematizzare nel seguente modo:
1) scelta patologica: è la scelta “sbagliata”, che non risolve il problema e anzi rischia di complicare molto il cammino
2) scelta terapeutica: è la scelta “giusta” che ripristina l’equilibrio e aiuta il soggetto a maturare nella direzione di una maggiore consapevolezza e pienezza
3) scelta… non saprei come definirla, forse si potrebbe definirla “quantica”: è la scelta “verticale”, che porta ad una svolta diversa, risolve il problema “spiccando il volo”, mutando radicalmente la prospettiva dalla quale si osserva il problema. Forse possiamo riassumerla dicendo che corrisponde alla piena e libera e consapevole accettazione del proprio Destino, e del prezzo che il Destino chiede di pagare per essere realizzato.
Vediamo ora, in modo didascalico e forse troppo schematico, come possiamo elencare le varie fasi biologiche ed esistenziali ai vari livelli o prospettive che possiamo considerare.
Fasi di reazione dello stress (Pancheri, 1984): fase di reazione allo stimolo (allarme) con iperattività, fase di adattamento, fase di esaurimento. Queste fasi, descritte la prima volta da Seyle circa un secolo fa su ratti, descrivono il comportamento biologico di reazione ad uno stimolo intenso e “nocivo” che perduri nel tempo (stress). Riguardano pertanto l’osservazione di ciò che succede a livello organico (attivazione dell’asse dello stress) e di come poi questa reazione si ripercuota a livello comportamentale. In questa sede si vuole solo sottolineare che aldilà delle condizioni organiche di partenza (siano pure eccellenti) e delle motivazioni psicologiche (siano pure forti e positive) occorre prevedere che uno stimolo nocivo che perduri a lungo indurrà alla fine esaurimento della capacità di resistenza e quindi, dopo più o meno lungo periodo di apparente equilibrio, una fase di rottura dell’equilibrio e comparsa di sintomi fisici e psichici anche diversi da quelli iniziali che hanno condotto il soggetto a valutazione medica[‡].
Fasi di evoluzione della malattia: si susseguono secondo la storia naturale della malattia: benigna o maligna, acuta, recidivante o cronica, evolutiva o non evolutiva, degenerativa o non degenerativa, invalidante o non invalidante, contagiosa o non contagiosa, eccetera. Possono susseguirsi fasi di accensione e remissione, di apparente equilibrio e di squilibrio sintomatico, biforcazioni di comportamento (fasi di non ritorno) fino alla fase di disgregazione funzionale irreversibile e non più modificabile. In questa sede si vuole solo sottolineare l’importanza di conoscere le fasi della malattia che si vuole curare in quanto è proprio in base alla storia naturale che si sceglie l’approccio terapeutico più adatto: aggressivo e “tecnico” se si tratta di cercare di modificare un’evoluzione ad esito infausto, per esempio; di modulazione se invece l’andamento è cronico e lascia spazio per un recupero funzionale graduale e definitivo; palliativo se l’organismo ha già superato le biforcazioni in cui si decide l’esito finale e la situazione appare comunque irreversibile; e così via. Questo percorso è quello maggiormente influenzato dalle possibilità terapeutiche ed è quello pertanto che impone continuo e costante aggiornamento del medico per una scelta che sia davvero “la migliore e la più efficace possibile” in base al continuo progresso della terapia medica.
Fasi di reazione psicologica (vedi per esempio: Kubler Ross E, 1984; Jomain C, 1986).
A livello psicologico si susseguono varie fasi: incredulità, ribellione, disperazione, accettazione passiva, frustrazione e rabbia, reazione paradossa di negazione del problema (iperattività positiva), accettazione attiva, rappacificazione, angoscia terminale, rassegnazione. Dai testi magistrali della Kubler Ross (che ha elencato le principali fasi osservate nei malati terminali: negazione, rabbia, compromesso, depressione, accettazione) e di altri assistenti di malati terminali, grandi osservatori e meticolosi raccoglitori di importanti dati, possiamo ricavare questi spunti che ci aiutano a tracciare un percorso generale fatto di fasi diverse, alterne e talvolta conflittuali. Queste fasi possono ripetersi sicchè il malato può oscillare più volte, per esempio, tra rassegnazione e ribellione prima di giungere alla accettazione positiva (e non è sempre detto che vi giunga): in questa sede si vuole solo sottolineare come anche in coloro che imparano a vivere “positivamente” il loro vissuto siano da attendersi fasi “negative” di intensa sofferenza e di “buio” che poi approderanno, più o meno transitoriamente, a fasi di “luce”: esse vanno accettate e supportate come in qualche modo “inevitabili” e il malato non va mai colpevolizzato per apparenti “chiusure”.
Fasi di reazione spirituale: anche sul piano spirituale vi sono varie fasi che caratterizzano l’evoluzione del soggetto verso la consapevolezza. Il discorso sarebbe lungo e molto complesso. Dandone solo un rapido cenno, tali fase possono essere così riassunte: desiderio generico di “essere messi alla prova”, accettazione “teorica” della prova, crisi delle certezze di fronte all’avvicinarsi della prova, reazione di evitamento della sofferenza, ribellione, accettazione “attiva” consapevole e definitiva, tentazione finale di disperazione, “consegna” di se stessi al compimento del prorpio destino. La tentazione finale sembra un retrocedere, invece è segnale del giungere del definitivo avanzare verso la meta e il coronamento finale (salto “quantico”), quando “il bozzolo del corpo si squarcia per farne uscire la farfalla che il dolore ha sviluppato”: il soggetto avverte di essere giunto alla soglia del “non ritorno” e teme di essersi illuso, di non aver fatto abbastanza per meritare la mèta, che non vi sia il coronamento tanto inseguito ed atteso ed è colto dalla tentazione della disperazione (per questo nel vangelo e’ scritto “solo chi persevererà fino alla fine giungerà alla salvezza”). Occorre accostare la persona impegnata in simile lotta con sacro rispetto e con grande tatto per differenziare le tappe psicologiche (che pertengono ancora alla parte materiale della persona) da quelle spirituali, essendo tali dimensioni spesso embricate e confuse per coloro che non siano avezzi a distinguerle (si veda ad esempio: Penson RT et al, 2001).
Ogni sintomo/segno esprime un aspetto fisico e un aspetto interiore (psichico e/o spirituale): infatti la dicotomia tra malattie psichiche e malattie organiche, pur se utile nella pratica, non corrisponde alla realtà, in quanto qualsiasi sofferenza perduri nel tempo ha delle ripercussioni sia a livello somatico che a livello psichico e dell’evoluzione esistenziale del soggetto.
Talvolta un piano vicaria l’altro (psiche su soma, ma anche soma su psiche): ognuno vicaria sul livello dove sopporta meglio lo “stress” in relazione alla costituzione (“terreno” o predisposizione genetica), alla fase esistenziale (anagrafica ed esperienziale) e al progetto di vita. Infatti se talvolta i sintomi vengono prodotti al livello più debole (un fisico forte non produce sintomi mentre ne produce una psiche più debole) occorre considerare anche il contrario: il disagio viene scaricato sul corpo che è più forte perchè la psiche non reggerebbe l’impeto del disagio, oppure viene negata la fatica a livello fisico e viene sfogata sulla psiche che può reggere in quel momento meglio del corpo (esempio può trarsi dalla storia di alcuni pazienti che appena resi consapevoli che il male fisico è in realtà mentale oppure appena liberati dal male fisico, in tali predisposizioni crollano e cadono in depressioni gravi fino al suicidio). Percio’ ogni espressione di malattia puo’ essere forse vista come un ”compromesso” per mantenere comunque le migliori omeodinamiche possibili. Ciascuno puo’ allenarsi a controllare il suo stato di equilibrio (o squilibrio) in modo da non esserne paralizzato. Ad un certo punto pero’ le compensazioni possono non bastare e possono essere vinti i propri sistemi di controllo e si ha così la produzione di sintomi sia fisici che psichici insieme.
Pertanto in tutte queste prospettive si comprende come si arrivi alla produzione (alternata o concomitante) di sintomi fisici e psichici, che devono essere correttamemente inquadrati per capire se abbiano significato patologico o “parafisiologico” ossia necessario per superare quella fase ed evolvere verso un nuovo stato di equilibrio (come si ha nel cosiddetto “aggravamento omeopatico” in cui la produzione di sintomi sia fisici che mentali, anche intensi, ha significato evolutivamente favorevole).
In alcuni casi sopprimere o evitare una sofferenza può impedire l’evoluzione della malattia o della vita verso la risoluzione del problema (Rancanelli F, 1976). (In alcuni testi omeopatici questo è ben evidenziato per quel tipo di medicina. Si veda per esempio Kent nella descrizione dell’aggravamento parafisiologico di Helleborus Niger dove avverte che se si sopprimerà la diarrea violenta iniziale il malato rischiera’ di morire (Kent). Gli psicologi sono concordi che per esempio un lutto non sofferto né esternato o “consolato” troppo precocemente può innescare profonde reazioni patologiche anche a distanza, mentre la possibilità di confidarsi può proteggere da eventi patologici: Pennebaker JW et al, 1984; Linn M et al, 1999). D’altra parte è vero anche che evitare di “staccare” il malato dalla propria sofferenza può indurre in stagnazioni esistenziali morbose e morbigene assolutamente nocive (Per esempio: Trotter RJ, 1987). Pertanto occorre buona conoscenza della fase di malattia per comprendere quali “paraventi” rispettare e quali invece togliere, quali elementi curare e quali invece lasciare stare: la buona terapia infatti è, nei casi cronici, un gioco di equilibri e di rispetto delle fragilità, con l’intento di ottenere un rinforzo del soggetto che gli permetta di tornare alla salute.
COME ORIENTARSI PER LA TERAPIA
Come abbiamo appena visto, esistono molti livelli in cui l’evento morboso cronico si sviluppa per varie fasi; non è detto che le varie fasi siano “sincrone” ai vari livelli e questo deve guidare nella scelta del livello sul quale si decide di intervenire in un dato momento.
Il discorso che sto facendo sembrerà oltremodo astratto e poco utile. In realtà è molto difficile schematizzare un iter standard di impostazione di una strategia terapeutica che tenga conto delle molteplici variabili in gioco. La medicina è sempre stata considerata un’arte proprio perché non riducibile a “scienza esatta”. In questa sede posso solo evidenziare gli elementi da considerare e chiarire, per quanto possibile, i “goal” della terapia.
Un concetto deve essere secondo me chiaro: l’aiuto adatto per una fase può essere un intralcio nella fase sbagliata. Questo sia a livello biologico che psicologico che spirituale.
Possiamo alleviare molto la sofferenza dei malati, ma anche aumentarla complicando il percorso con stimolo terapeutico non opportuno: in questo caso l’aiuto (farmaco, parola, terapia di modulazione, eccetera) crea uno stress che deve a sua volta essere elaborato e che interferisce con i processi in atto per neutralizzare la noxa iniziale (oltre al fatto che quanto attuiamo scorrettamente può ritardare l’approccio corretto e il problema evolvere nel frattempo attraverso biforcazioni che conducono a fasi di non-ritorno che impediscono poi all’approccio corretto di sortire effetti). Si può tuttavia “shiftare” l’aiuto da un piano all’altro in modo da sostenere il soggetto: si supporta il livello maggiormente in crisi e si “forza” la progressione attraverso i livelli più malleabili e forti in quel momento.
Sul piano biologico, durante una fase di acuzie senz’altro è meglio soprassedere a tentativi di modulazione della reattività (che si basano sul creare una perturbazione in grado di correggere quella patogena) e “spegnere l’incendio” con farmaci di sintesi (e questo vale anche per la fase di reazione depressiva a livello psichico). Invece in un momento di “stagnazione” in cui l’organismo sembra incapace di reagire sarà opportuno stimolare la reattività con terapia di modulazione da sola o affiancata alla terapia farmacologica necessaria.
Anche sul piano psicologico ed esistenziale si dovrà porre simile attenzione. Ad esempio nelle fasi di presa di coscienza è importante la verbalizzazione e analisi del processo evolutivo che il soggetto sta attraversando (Zeddies TJ, 2001). In quel momento è forse più adatta una psicoterapia. Invece nel momento del rifiuto razionale si può intervenire con tecniche di modulazione energetica (esempio agopuntura simbolica o se indicata floriterapia oppure omeopatia unitaria) che facciano superare al soggetto lo scoglio senza doverlo elaborare a livello cognitivo (operazione che in quella fase non è disposto a fare). Un esempio, tanto per farne uno, potrebbe essere utilizzare l’agopuntura sul punto 7LU/lieque per aiutare il soggetto a lasciare andare un’abitudine o una persona che razionalmente non è disposta a lasciare andare (De Berardinis et al, 2001).
Occorre comunque considerare che il risultato più duraturo si ha quando viene razionalizzato e introiettato come esperienza cosciente il progresso verso la guarigione, che significa aver attinto dalla malattia il messaggio evolutivo che recava.
So che questo discorso non sarà condiviso da coloro che vedono il proprio approccio “onnipotente” e considerano adatto in tutte le fasi per esempio un opportuno rimedio omeopatico o un adatto schema agopunturistico o supporto psicoterapico. Tuttavia io ritengo che ogni tipo di intervento ha un suo momento terapeutico che va rispettato e che rende ottimale la risposta. Infatti un tipo di intervento terapeutico somministrato al momento non adatto (in cui l’organismo non è reattivo a quel tipo di stimolo) rischia non solo di risultare inefficace, ma di indurre una reazione di sfiducia che genera successiva resistenza ad ulteriori tentativi terapeutici.
Infine sottolineo come i momenti di “biforcazione” del comportamento patologico siano i più delicati ma anche potenzialmente i più efficaci in cui intervenire con la terapia, in quanto rappresentano dei momenti di instabilità del sistema, che diviene perciò sensibile alle variazioni terapeutiche somministrate: tuttavia per le caratteristiche intrinseche di questi momenti, occorre essere consapevoli che lo stimolo giusto può guarire, ma quello sbagliato può causare peggioramento irreparabile attraverso “spostamento di livello di malattia” oppure rottura irreversibile dell’equilibrio biologico (Bellavite P, 1998). Occorre pertanto ottima conoscenza della storia naturale della malattia e del mezzo terapeutico che si sta utilizzando.
- CONCLUSIONE: COME METTERE IN PRATICA CIÒ CHE SI INTUISCE?
Quanto si è sopra detto è estremamente sommario, ma dovrebbe essere sufficiente per comprendere che vi sono varie prospettive dalle quali osservare i problemi di salute dei nostri pazienti e che queste prospettive non soltanto non sono “alternative” l’una verso l’altra, ma anzi esplorano dimensioni diverse tutte contemporaneamente presenti e pertanto tutte vere: può essere vero che ci sia un problema somatico (microbiologico, cicatriziale, carenziale, tossico chimico, posturale, metabolico, flogistico, degenerativo, neoplastico, eccetera), e contemporaneamente vero che esso derivi da un disagio psicologico e altrettanto vero che questo disagio affondi in motivazioni inconscie e che il tutto derivi da incapacità del soggetto a sublimare la situazione in un progresso spirituale di perdono e accettazione. Uno degli errori fondamentali in cui si rischia comunemente di cadere è quello di attribuire importanza “assoluta” alla prospettiva dalla quale si sceglie di guardare al problema, come se fosse “LA” spiegazione. L’altro comune errore (a mio avviso) è quello di volerle considerare tutte, creando inefficace confusione. Occorre invece conoscere le varie prospettive e i mezzi idonei per perseguire gli scopi terapeutici che da esse scaturiscono, poi operare una scelta operativa di priorità e non perseguire mai più obiettivi contemporaneamente. La gerarchia di urgenza di trattamento si deduce dall’analisi della storia individuale e di malattia del soggetto e dall’esame attento di quale sia la componente maggiormente responsabile della sofferenza attuale del malato, per intervenire in primis in quella direzione e poi, a situazione stabilizzata, su quelle che si ritengono le cause vere e profonde e originarie del problema. Naturalmente occorre duttilità e disponibilità ad “aggiornare” il criterio di priorità in base alla non sempre prevedibile evoluzione della situazione.
Sarebbe auspicabile che l’attività terapeutica fosse condotta da équipe ben affiatate in cui ciascuno si occupa di una componente della sofferenza utilizzando i mezzi più adatti e lavorando sempre tutti d’accordo sui tempi di intervento: questo eviterebbe da un lato il disagio del paziente di cercare e trovare supporti, e dall’altro eviterebbe che il quadro si complichi per eccesso di stimoli terapeutici differenti somministrati in sequenze poco opportune perché ogni terapeuta conosce solo una parte del percorso terapeutico del paziente.
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Indirizzo per chiarimenti
Dott.ssa Marialucia Semizzi
E-mail: [email protected]
[*] Medico Internista. Agopuntore e Fitoterapeuta.
[†] Non segnalo particolari brani delle opere cui rimando in bibliografia, ma le segnalo per intero. Questo perché ritengo che esse siano tutte ricche di spunti, ma la brevità della presente trattazione non consente di svilupparli con la necessaria esaustività. Pertanto rimando il lettore ad approfondire per suo conto le suggestioni che cerco di trasmettere su testi che mi hanno arricchito molto e che mi hanno fatto comprendere le cose che sto scrivendo.
[‡] Non è questa la sede per osservare come il prolungarsi dei tempi di attesa per una valutazione medica, o la scarsa disponibilità che talora si incontra nei medici a soffermarsi ad ascoltare le paure dei pazienti e a rispondervi con spiegazioni rassicuranti possa attivare simile reazione di stress che alla fine può complicare molto la vicenda clinica del malato. Sui timori dei pazienti e su come questi possano non essere intuibili dal medico si veda per esempio il caso clinico del Signor Guido riportato in apertura di libro da Moja (Moja et al, 2001: pgg. 1-7)