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CRITERI GENERALI DI IMPOSTAZIONE DELLA STRATEGIA TERAPEUTICA Dott.ssa Marialucia SEMIZZI |
“Per trattare e curare le malattie si
deve esplorare la loro origine (…) perché, sebbene possa essere di poco
conto, una malattia può, nonostante tutto, diffondersi e sebbene possa essere
grave, può, nonostante tutto, essere migliorata”
(So Wen Libro II, cap. 5)
Riassunto: In questo articolo si propone una
possibile chiave di lettura dell’evoluzione di un evento morboso cronico
attraverso la teoria dei sistemi complessi per tentare, comprendendo come si
instaurino le malattie, di fornire le linee generali in base alle quali
scegliere la strategia terapeutica migliore per ripristinare lo stato di salute
nei singoli casi .
Parole chiave: Metodologia
clinica. Complessità. Strategia terapeutica in generale.
Abstract: A possible key to understand the
development of chronic disease is given in the following article. By the the
theory of complex systems it is possible to understand the way diseases develop
and consequently provide a basis for choosing the best therapy to restore health
in each single case.
Key-words: Clinical Methodology; Complexity,
Therapeutic strategy.
Le
medicine naturali sono ormai di moda e sono largamente richieste anche da parte
dei pazienti che confidano in esse a causa della loro presunta assenza di
effetti nocivi. Come medici però dovremmo non accontentarci del consenso dei
pazienti, ma chiederci quale possa essere la base razionale di ciò che facciamo
e il meccanismo d’azione dei rimedi che prescriviamo.
Recentemente la constatazione di quanto sia ormai
diffuso il ricorso da parte della gente a “rimedi naturali” per i più
svariati problemi di salute ha reso indispensabile confrontarsi con queste
realtà e recensire le scuole e le fonti di sapere in questo campo da parte
della Scienza biomedica moderna e degli Ordini professionali dei Medici in
Italia e all’estero 1, 2, 3, 4. D’altra parte sta crescendo anche la
consapevolezza che le terapie che il sapere medico “ufficiale” può
consigliare sono spesso limitate e comunque non scevre da rischi (una delle
principali cause di morte nei paesi industrializzati è quella iatrogena! 5, 6).
Queste due sono le principali ragioni dell’interesse che le Medicine
Complementari stanno suscitando a livello accademico e normativo: da un lato la
volontà di disciplinare attività incontrollate e dall’altro la sana
curiosità verso nuovi spunti terapeutici. Anche la recente revisione del Codice
di Deontologia Medica (3 ottobre 1998) contempla questo fenomeno, concedendo
facoltà al medico di ricorrere a presidi delle medicine complementari, pur
fornendo indicazione dei limiti precisi in cui è lecito operare questa scelta
(Titolo II, Capo IV, Articoli 12 e 13).
Vediamo dunque di soffermarci su questo nuovo ed
eterogeneo panorama terapeutico.
Gli aspetti delle medicine complementari che stanno
suscitando interesse nella Medicina ufficiale sono principalmente due:
1) l’aspetto economico (intorno alle cosiddette
medicine naturali fiorisce un mercato estremamente redditizio ed in espansione)
2) il timore di omissione di cure efficaci nel caso si
opti per il ricorso a medicine naturali.
Questi aspetti sono davvero importanti, tuttavia a mio
avviso manca completamente l’attenzione all’aspetto della valutazione sia
degli effetti terapeutici intrinseci ottenibili con gli approcci “alternativi”
(è da dimostrare che si tratti solo di placebo!) sia delle possibili
interazioni tra terapie convenzionali eventualmente in uso e terapie alternative
eventualmente associate.
Ci sono vari elementi culturali ed errori di
atteggiamento che ostacolano il confronto e quindi la possibile integrazione.
Per esempio talvolta da parte di colleghi “alternativi” c’è espressione
di pregiudizio nei confronti dei procedimenti terapeutici “convenzionali” e
da parte di colleghi “convenzionali” c’è pregiudizio e acritica condanna
di qualsiasi approccio non convenzionale. Il malinteso e il pregiudizio non
hanno mai giovato alla verità e hanno sempre ostacolato il progresso della
scienza. Pertanto il confronto onesto non può che giovare alla Medicina e
aiutare chiunque lo voglia a “separare il grano dal loglio” come si dice.
Per quanto riguarda l’obiettivo della salute del
paziente (che fino a prova contraria resta l’interesse primario della
medicina) c’è grave rischio nella reciproca ignoranza dei vari approcci
terapeutici (che nel caso dei medici rigidamente accademici è “ignoranza
primaria” in quanto non conoscono affatto altri approcci, nel caso di medici
“fanaticamente” alternativi si assiste spesso ad una sorta di “analfabetismo
di ritorno” in quanto dal loro agire non sembrano affiorare conoscenze sulle
potenzialità terapeutiche cosiddette “ufficiali” che pure a loro tempo
devono aver studiato).
Forse può pertanto risultare di qualche utilità
offrire alcuni spunti di riflessione, sebbene siano cose già a tutti note,
proponendo una possibile chiave di lettura dell’evoluzione di un evento
morboso e ripassando sinteticamente le tappe che portano all’impostazione
della strategia terapeutica.
DALLA DIAGNOSI ALLA TERAPIA
Una volta terminata la fase di raccolta ed elaborazione
dei dati (anamnesi, esame obiettivo, ausili diagnostici di vario genere) si
perviene ad una diagnosi, o quantomeno ad un sospetto diagnostico. A questo
punto si deve decidere quale strategia terapeutica adottare, cioè quale
percorso proporre al paziente per fargli recuperare la salute. Non per caso è
stato scelto il termine militare “strategia”, che richiama una logica
precisa: conoscere il nemico, studiare le sue abitudini, esplorare il territorio
in cui si muove, preparare un piano di attacco e pensare anche un piano di
difesa se compaiono imprevisti, non farsi sorprendere per quanto possibile e
sapere esattamente cosa si sta facendo e perché.
Per prima cosa è indispensabile avere uno scopo
terapeutico, e dopo aver deciso il percorso terapeutico occorre valutare con
quali mezzi effettuarlo.
Per impostare una buona terapia, conoscendo la diagnosi
di malattia, è indispensabile:
1) conoscere la storia naturale della malattia, cioè
sapere esattamente cosa succede o cosa potrebbe succedere se si decide di non
curarla;
2) conoscere tutte le possibilità terapeutiche
disponibili per quella malattia, dalle più semplici alle più complesse,
conoscendo per ciascuna terapia: principio attivo, meccanismi d’azione, durata
d’azione, efficacia, limiti, effetti collaterali, controindicazioni,
interazioni con altre cure, facilità di “compliance”, costi, rapporto
rischio/beneficio (rischio e beneficio collegati sia alla prescrizione che
alla non prescrizione di quella cura).
3) valutare la fase di malattia in cui si trova il
paziente nel momento in cui lo vogliamo curare e sapere che fasi diverse della
stessa malattia possono richiedere approcci terapeutici differenti, per cui il
monitoraggio clinico significa anche apertura a revisione radicale dell’impostazione
terapeutica. Il paziente deve essere fatto consapevole che adottare un tipo di
terapia non vuol dire scartare definitivamente approcci diversi e che una stessa
malattia può avere bisogno in certi momenti di prescrizioni farmacologiche più
aggressive e in altri momenti di approcci più “soft” e che questo deve
essere concordato in base all’andamento clinico e al risultato degli esami
specifici di monitoraggio della malattia.
4) valutare le caratteristiche del paziente e scegliere,
compatibilmente con la ipotetica o prevista efficacia delle varie opzioni
terapeutiche, il tipo di cura più congeniale al soggetto specifico da trattare
(per esempio alcuni preferiscono le iniezioni, altri le rifuggono, alcuni
preferiscono terapie fisiche, altri dichiarano di non avere tempo per eseguirle,
alcuni tendono a dimenticarsi di assumere i farmaci per cui è meglio scegliere
somministrazioni diradate, altri sono rassicurati da assunzioni frequenti,
alcuni desiderano frequenti contatti col medico, altri li temono, eccetera).
Inoltre considerare la possibilità di prescrivere inizialmente, qualora il
paziente rifiuti di accettare l’approccio terapeutico più idoneo (pur se
informato adeguatamente sulla necessità ed efficacia dei farmaci occorrenti),
un approccio meno efficace ma sicuramente accettabile per il paziente,
naturalmente monitorando la risposta terapeutica per valutare se comunque si sta
obiettivamente perseguendo lo scopo terapeutico (per fare un esempio:
prescrizione di iperico e floriterapia di Bach per trattare sindromi depressive
che richiederebbero farmaci psicoattivi rifiutati però decisamente dal
paziente, oppure dieta e fitoterapia per curare un’ipertensione arteriosa che
il paziente non curerebbe in nessun altro modo). Qualora in un periodo di tempo
considerato sufficiente per avere risposta terapeutica non si ottenessero
risultati, va fatto ulteriore e convincente tentativo di proporre la terapia
farmacologica più idonea (l’esperienza comune dice che normalmente, di fronte
al fallimento della terapia più gradita, il Paziente si convince di dovere
assumere un farmaco più “potente” e lo accetta).
Da tutto questo si deduce che per impostare una buona
terapia sono necessarie due qualità fondamentali: buona cultura medica e buona
capacità di comunicare col paziente e di instaurare un rapporto positivo con
lui.
Prenderemo in considerazione la terapia così come può
essere impostata secondo la logica della Medicina di Modulazione. Infatti le
terapie comunemente considerate non convenzionali, e cioè agopuntura ed
elettroagopuntura, omeopatia (unicista e altre scuole), terapia con
oligoelementi, omotossicologia, floriterapia, terapie fisiche (mediante
frequenze elettromagnetiche e bioelettroniche, terapie di biorisonanza fisica,
ecc.) e di rieducazione comportamentale come il metodo Tomatis, Alexander,
Fedelkreis, Meziéres eccetera si propongono come terapia di modulazione,
inducendo l’organismo ad attivare (o riattivare) tutti i meccanismi di
riparazione del danno e di autoguarigione.
In un certo senso possono essere intese come una “rieducazione
dell’organismo alla salute”.
Pur se sembra ovvio ribadirlo, si sottolinea che il
trattamento omeopatico o “naturale” non può e non deve essere considerato
alternativo rispetto alle terapie convenzionali (aut/aut), ma sempre
complementare quand’anche utilizzato come unico trattamento terapeutico (vel/vel).
Sembra una precisazione ovvia, ma l’esperienza comune dimostra che esistono
ancora medici che pensano di curare il Lupus Eritematodes Sistemico o le
leucemie soltanto con l’omeopatia e altre terapie di modulazione, senza
considerare se l’organismo sia oppure no ancora “modulabile”.
CENNI SULLA COMPLESSITA’
COME CHIAVE DI LETTURA DELL’ETEREOGENEITA’ DI MANIFESTAZIONE DI UNA MALATTIA
Come possono funzionare i rimedi omeopatici, ad esempio,
date le diluizioni? Oppure come possono degli aghi infitti nella pelle curare
affezioni sistemiche? Quale percorso fanno per comunicare la loro informazione
terapeutica al bersaglio? E’ davvero inconoscibile tutto questo? E sul
versante diagnostico si può tentare di capire perché un paziente ammali
proprio in quel modo e un altro no? A mio avviso nelle leggi della complessità
e della biofisica possiamo cercare le risposte a queste domande. Infatti nello
studio dei sistemi dinamici o complessi troviamo una eccellente base logica per
spiegare i fenomeni variabili e imprevedibili che occorrono durante le malattie.
Sono ormai numerosi i lavori scientifici e medici che si riferiscono a questa
affascinante e unificante teoria per spiegare molti eventi fisiologici e
patologici dell’organismo umano.
Cominciamo con la definizione di complessità (7,8,9).
Diciamo subito cosa non è: non è sinonimo di complicatezza e non è
impossibilità ad essere conosciuta.
La complessità è la caratteristica fondamentale dei
sistemi viventi ed esprime in un certo senso la loro evoluzione nel tempo e
nello spazio. I sistemi viventi possono essere concepiti come sistemi complessi
perché in essi possiamo reperirne le caratteristiche fondamentali:
Queste caratteristiche come si vede sono dinamiche e per
questo ho detto che la complessità può essere intesa come l’evoluzione dei
sistemi viventi nel tempo e nello spazio; esse sono la conseguenza delle due
peculiarità fondamentali dei sistemi complessi:
1) l’apertura
2) l’autorganizzazione
L’apertura fa sì che il sistema sia in continua
relazione ed interscambio con l’esterno e con altri sistemi, dandogli la
possibilità di acquistare continuamente nuova energia o di perderla.
L’autorganizzazione fa sì che i vari elementi del
sistema stabiliscano tra loro relazioni stabili che conducono ad una forma
ordinata e organizzata. Lo stato ordinato d’arrivo del sistema non è
prestabilito; infatti come appena visto, una delle caratteristiche dei sistemi
complessi è quella di permettere più di una configurazione per ogni livello di
energia.
Pertanto il sistema complesso è molto duttile e
modificabile e quindi è un sistema plastico, adattabile, ma è anche in un
certo senso molto vulnerabile: qualsiasi perturbazione anche piccola ne alteri
una variabile può indurre modificazioni di tutto il sistema 9.
Per permettere al sistema di mantenere la propria
identità anche in seguito alle perturbazioni perciò è necessario che accanto
all’apertura ci sia la capacità di autoregolazione, che avviene attraverso i
sistemi omeostatici. Il mantenimento dell’omeostasi è il principale lavoro
del nostro organismo e consiste in incessanti cicli di azioni e controreazioni
nel tentativo di mantenere l’equilibrio o di produrre condizioni stabili che
permettano il miglior uso possibile delle varie funzioni fisiologiche. Questi
cicli incessanti di reazioni e controreazioni hanno una caratteristica: il punto
di arrivo (risultato) di un ciclo è il punto di partenza del successivo 7, 8.
Il sistema omeostatico, quindi, è rappresentato da un
anello di retroazione (feed-back), in cui l’informazione sul risultato di un
ciclo di attività viene rimandata, riveduta e corretta all’ingresso del ciclo
successivo. Esprime una tipica proprietà dei sistemi caotici: l’estrema
sensibilità alle condizioni iniziali ed a piccole perturbazioni. Una piccola
variazione si amplifica rapidamente a tal punto che dopo alcune iterazioni si
perde completamente la periodicità precedente. Questo effetto è anche noto
come “effetto farfalla” (butterfly effect), così denominato da E. Lorenz,
che propose un sistema di equazioni per definire un modello dei moti convettivi
dell’atmosfera: tale modello dimostra che l’evoluzione dell’atmosfera
viene radicalmente modificata da un cambiamento anche minimo della turbolenza
dell’aria, come potrebbe essere quello prodotto dal battito d’ali di una
farfalla (a questo fenomeno si deve l’estrema imprecisione delle previsioni
del tempo) 8, 9.
Abbiamo visto che il sistema, tra le molte
configurazioni possibili ad un dato livello di energia ne sceglie alcune
piuttosto che altre. Queste configurazioni stabili preferenziali che il sistema
esprime (che possiamo intendere come la configurazione migliore a quel livello
di energia) in matematica le chiamiamo attrattori. Un sistema complesso come l’organismo
contempla molte variabili e molti elementi costitutivi e pertanto le regole
omeostatiche che determinano il comportamento dell’organismo generano
sicuramente degli attrattori 7,9.
Lo studio degli attrattori fornisce spunti molto
interessanti per comprendere le possibili conseguenze di una perturbazione e le
possibili evoluzioni dinamiche del sistema.
Il sistema si trova in una certa condizione, che è il
risultato dell’interazione tra i suoi vari elementi costitutivi e la
risultante dell’interazione delle sue variabili. Questo comportamento (o
configurazione) lo chiamiamo attrattore del sistema perché è la configurazione
in cui il sistema è stato “attratto” tra le tante configurazioni possibili
a quel livello di energia. Se adesso proviamo a provocare una piccola e
transitoria perturbazione noi possiamo osservare più comportamenti possibili
8,9:
- il sistema avverte la perturbazione e l’attrattore
si modifica, ma dopo un po’ di tempo si vede che il sistema torna
spontaneamente all’attrattore iniziale (cambio transitorio di attrattore);
- il sistema cambia bruscamente condizione e dopo varie
oscillazioni si stabilisce in una condizione differente (cambio permanente di
attrattore);
- il sistema non viene modificato dalla perturbazione
(attrattore stabile) e ne serve la ripetizione per provocare un effetto.
Soffermiamo l’attenzione sull’adattamento patologico
8. Esso è una evoluzione in un certo senso intermedia tra guarigione e continuo
peggioramento auto-indotto, rappresentando un nuovo equilibrio, diverso dalla
salute ma stabile, adattato alle mutate circostanze. Ad esempio possiamo pensare
all’ipertrofia cardiaca e alle modificazioni della funzionalità renale in
corso di ipertensione, all’iperinsulinemia nell’obeso, all’ipercheratosi
cutanea a seguito di continuo sfregamento, ecc... L’economia generale dell’organismo
è profondamente alterata, ma il sistema “tollera” questa situazione abnorme
senza reagire (equilibrio apparente e provvisorio in quanto destinato a rompersi
nel tempo). L’adattamento patologico è pertanto una fase della risposta dell’organismo
in cui si verifica un momento “decisionale” molto critico, che scatta quando
i sistemi reattivi non riescono a fronteggiare adeguatamente la noxa ed a
ripristinare rapidamente lo stato originario.
L’adattamento consente di “convivere” con la
malattia, ma rappresenta, in un certo senso, una rinuncia alla guarigione
completa. È chiaro che nella strategia terapeutica che tenda a portare l’organismo
del paziente verso la guarigione devono essere cercati interventi tesi a
rimuovere o “by-passare” i blocchi costituiti dall’adattamento. La
malattia cronica non è quindi in assoluto ed inevitabilmente irreversibile, ma
la reversibilità è sempre molto difficile in assenza di corretti rimedi che
aiutino il sistema a cambiare struttura e comportamento.
Occorre sottolineare un aspetto importante riguardante
gran parte dei segni e sintomi della malattia e delle altre manifestazioni
rilevabili mediante indagini laboratoristiche e strumentali: derivano non tanto
dal danno diretto dell’agente eziologico quanto dalle reazioni dell’organismo,
sia di tipo attivo (fasi acute) che adattativo (fasi croniche). I sintomi sono
espressioni della malattia, ma non sono la malattia.
Un insulto patogeno di modesta entità induce un piccolo
stress che provoca una reazione. Tale reazione minore decorre acutamente nel
giro di poche ore o pochi giorni, mobilitando il sistema di difesa in modo
sub-clinico, nel senso che si svolge prevalentemente senza provocare una “malattia”.
Fenomeni di questo genere avvengono continuamente anche negli individui “sani”,
per il semplice fatto che chiunque è esposto a stress ambientali. Anche le
oscillazioni spontanee, più o meno caotiche, dell’omeostasi interna
rappresentano un piccolo stress biologico perché costringono in ogni caso a
continui sforzi di adattamento e di compensazione. Va sottolineato un concetto
importante: senza stress non si ha neppure vita e si è dimostrato in molti
modelli sperimentali che animali tenuti in condizioni omeostatiche ambientali ed
endogene molto stabili, risparmiando qualsiasi sforzo adattativo, risultano
talmente fragili da soccombere per un qualsiasi stimolo 10.
In sintesi, quindi, partendo da un ideale stato di
salute, si ha un primissimo stadio in cui un iniziale disordine, per lo più non
apparente ad eccezione di sintomi molto sfumati o variazioni di parametri molto
fini, rende l’organismo più suscettibile a perturbazioni indotte da agenti
esterni. In seguito a stimolo patogeno adatto può a
questo punto instaurarsi una malattia acuta. Se le “decisioni strategiche”
dei sistemi omeostatici sono ottimali, la malattia “clinica” viene stroncata
sul nascere e non si manifesta neppure, oppure viene facilmente superata.
Dove
stanno le “decisioni” dei punti di biforcazione, sensibili quindi a piccoli
ma determinanti fattori di regolazione? Esse risiedono fondamentalmente nella
fase delle reazioni dei sistemi biologici omeostatici. Tali sistemi, soprattutto
quello infiammatorio ed immunitario, ma anche i sistemi di detossificazione del
fegato ed il sistema emostatico, e molti altri, hanno una “doppia faccia”,
fanno guarire ma anche possono provocare danno 7,8,9.
Spostandoci
a considerare una patologia cronica, bisogna precisare che non tutte le malattie
croniche si manifestano inizialmente come malattie acute, ma spesso si
manifestano con lunghe fasi di fluttuazioni omeostatiche a livello sub-clinico.
Molte malattie genetiche sono prevalentemente di questo tipo.
La malattia cronica potrebbe essere vista come il
risvolto negativo delle capacità di auto-organizzazione della materia vivente.
Il sistema si riorganizza in un “nuovo ordine”, con le sue regole, i
suoi controlli multipli e incrociati, una sua relativa stabilità. Questo nuovo
ordine non trova in sé stesso l’energia per un ritorno allo stato di salute
originario ma, anzi, dopo una perturbazione tende a ritornare al comportamento
patologico 7,9.
Rimuovere l’adattamento patologico in questa fase
rimane comunque un obiettivo che il medico può prendere in seria
considerazione, perché ciò consentirebbe all’organismo di ritornare allo
stato di salute ideale.
Vediamo ora di richiamare un esempio clinico che ci
aiuti a capire meglio questi concetti: l’infezione da Streptococco
beta-emolitico. Come sappiamo il decorso di questa infezione può essere molto
variabile: può trattarsi di una banale infezione (prevalentemente delle prime
vie aeree, ma non solo) che guarisce in breve tempo senza lasciare reliquati
oppure può essere la prima tappa di patologie più gravi come reumatismo
articolare acuto, pancardite e valvulopatia mitralica, glomerulonefrite acuta
detta appunto post-streptococcica, vasculiti e altri disordini da
immunocomplessi, meningiti ed encefaliti, ascessi, eccetera. Da cosa dipende
questa varietà di comportamento?
Dipende da molte variabili:
Prendiamo in considerazione il sistema costituito da
ambiente - flora batterica - presenza di streptococco beta emolitico -
suscettibilità dell’organismo ospite - variabili omeostatiche dell’ospite.
Analizzando questo sistema complesso secondo le leggi della complessità e
variando una variabile omeostatica in modo che si abbia interazione tra
organismo e streptococco noi troveremo, pur senza conoscere nulla di
microbiologia e di patologia medica, che devono essere possibili vari
comportamenti del sistema in seguito all’interazione streptococco-organismo, e
che questi comportamenti possono condurre più o meno lontano dall’equilibrio
della salute ed in modo più o meno consistente, alterando una o più variabili
del sistema. Riusciamo perciò, lavorando soltanto su un piano astratto, a
comprendere che l’infezione da streptococco può dare problemi molto diversi e
su più livelli omeostatici. E l’osservazione clinica conferma questo
ragionamento.
Pertanto lo studio dei sistemi complessi ci risulta
fondamentale per capire le dinamiche delle malattie e della guarigione.
Nota di terapia - Cosa fa “pendere la bilancia”
verso l’azione finalisticamente positiva rispetto a quella non necessaria e
francamente patologica? L’esito della reazione può dipendere da una
informazione che sia significativa sul piano del coordinamento dei sistemi di
reazione. Poiché un simile coordinamento è garantito dalle reti cibernetiche
quali i sistemi nervoso ed emato-ormonale, ma anche da fini regolazioni di
natura elettromagnetica e probabilmente da un sistema di regolazione che può
essere assimilato ai meridiani descritti dall’antica tradizione cinese, ne
deriva che una informazione, piccola ma ben indirizzata, che raggiunga e venga
de-codificata da tali sistemi potrebbe essere utile nella “scelta” ottimale
della reazione al danno 7,8,9. Ecco quindi nuovamente l’importanza di una
disciplina, quale la biodinamica, che concentri la propria attenzione a
tracciare quadri fisiopatologici più completi possibile (servendosi di tutti i
mezzi utilizzati dalle varie tradizioni mediche) ed a cercare i più adatti
rimedi a livello individuale in considerazione delle fasi della malattia e della
situazione globale del paziente.
La guarigione può essere infatti provocata o favorita
se noi riusciamo a provocare una pur piccola perturbazione che riporti il
sistema (l’organismo) verso l’equilibrio di salute 8,9. La perturbazione non
può essere una perturbazione qualsiasi, ma deve essere quella “giusta”, l’unica
che riesca ad agire sul sistema riequilibrandolo. Questa perturbazione, la più
piccola e la più specifica possibile, viene scelta tra le molte possibili in
base alle condizioni del sistema in quel momento .
VALUTAZIONE DELLA FASE DI MALATTIA
Secondo quanto si è potuto finora studiare e valutare
nella pratica, l’impostazione di una terapia di modulazione è delicata,
potendo risultare persino nociva qualora sbagliata. Infatti si pensa consista in
generale nel provocare una reazione dell’organismo con deboli stimoli fisici,
frequenziali e magnetici, al fine di “manipolarlo” per ottenere la
cancellazione di informazioni patogene e il ripristino di informazioni
biologiche corrette. Occorre conoscere esattamente le informazioni patogene che
si vogliono annullare e conoscere il momento opportuno per intervenire.
Infatti, come già si accennava, è fondamentale
conoscere la fase in cui si trova la malattia nella quale interveniamo,
essendoci fasi in cui lo stimolo terapeutico può essere efficacemente
assimilato e utilizzato, fasi in cui lo stimolo terapeutico risulterà con molta
probabilità inefficace e fasi nelle quali lo stimolo terapeutico somministrato
può teoricamente determinare, anziché la guarigione, uno spostamento di
livello di malattia (per cui magari scompaiono i sintomi che volevamo curare ma
ne possono comparire altri prima non presenti e non sempre espressione di danno
più benigno). Infatti proprio nelle fasi iniziali di malattia (fasi
pre-cliniche o sub-cliniche) si situano quelle “biforcazioni” di
comportamento che decidono della salute del resto della vita 8.
Va sottolineato come la presenza o meno di danno
organico non sia valido criterio di scelta sull’approccio terapeutico più
opportuno; infatti anche malattie croniche con evidente danno organico possono
avvantaggiarsi di terapia di modulazione, nell’intento di spostare il livello
di malattia a grado più lieve e meglio tollerabile, mentre all’opposto
malattie croniche senza danno organico evidente possono richiedere aggressività
nel trattamento per impedire evoluzione sfavorevole.
Qualora si tratti di malattie con danno organico
recidivante (come ulcera peptica oppure cistiti o vaginiti ricorrenti) l’approccio
con terapia di modulazione può essere talvolta da solo risolutivo per il
problema.
In linea generale, il criterio di valutazione per
decidere se prescrivere utilmente terapia di modulazione dovrebbe essere lo
studio della fase di malattia e della suscettibilità dell’organismo a stimoli
di modulazione (il che spesso non è facile da capire prima di aver tentato).
Nella maggior parte dei casi un disturbo cronico è
preceduto molto tempo prima da “segnali di allarme” di fronte ai quali
generalmente il paziente non prende alcun provvedimento.
Distinguiamo grossolanamente: una fase preclinica, una
fase “borderline” e una fase clinica. Nelle affezioni croniche possono
alternarsi fasi sintomatiche o cliniche, fasi asintomatiche o di remissione e
fasi “borderline” o paucisintomatiche. Questa complessità e variabilità
impedisce di fare qualsiasi generalizzazione sull’approccio terapeutico
migliore.
Va sottolineato, pur se ovvio, che la stessa malattia
può avere contemporaneamente componenti diverse in fasi diverse che
rispondono a diversi trattamenti. Per questa ragione consigli dietetici, sedute
di agopuntura o la prescrizione di rimedi omeopatici possono trovare
indicazione anche in situazioni nelle quali si sa già che non saranno
risolutivi, ma possono fungere da adiuvanti. Logicamente il paziente andrà reso
consapevole della necessità di altri trattamenti e della parzialità degli
effetti ottenibili con trattamento di modulazione, per essere libero di
scegliere se effettuare o no la cura.
Per prima cosa pertanto occorre decidere, in base alla
diagnosi e analisi del caso, a quale delle seguenti tre categorie il paziente
che si ha di fronte appartiene:
1) Quadro clinico di tipo “funzionale” (normalmente
a prognosi talvolta grave quoad valetudinem, ma sempre favorevole quoad vitam)
per il quale sono possibili vari approcci terapeutici, ma non sono disponibili
terapie convenzionali risolutive o sicuramente efficaci; possiamo pensare alle
cefalee o all’emicrania essenziale, alla sindrome dispeptica o a quella del
colon irritabile, alla discinesia biliare, alla dismenorrea o all’algomenorrea.
In questo caso può essere prescritta terapia non convenzionale come unico
approccio terapeutico.
2) Quadro clinico configurante una malattia organica
acuta o cronica per la quale è prevista terapia convenzionale efficace e
necessaria e per la quale l’omissione di terapia convenzionale può far
prevedere peggioramento irreversibile del paziente (prognosi quoad vitam o quoad
valetudinem dipendenti dallo stadio di malattia, potenzialmente anche molto
gravi o letali. Esempi: infezioni batteriche acute, nefropatie, cardiopatie,
ipertensione arteriosa, dislipidemia, diabete, connettivopatie, epilessie,
neoplasie, asma bronchiale, malattie infiammatorie intestinali, glaucoma,
eccetera). In questi casi deve sempre essere prescritta la terapia necessaria
convenzionale, ma può essere presa in considerazione la terapia non
convenzionale come adiuvante, con la prospettiva di ridurre (o sospendere
gradualmente) i farmaci convenzionali in uso. Il trattamento non convenzionale
eventualmente prescritto va all’inizio associato alla terapia convenzionale
senza modificarla (cortisone compreso). Saranno soltanto l’andamento clinico
e il risultato delle analisi di follow-up a determinare la riduzione o
sospensione di farmaci convenzionali.
Qualora il paziente giunga all’osservazione prima di
aver iniziato terapie convenzionali, occorrerà particolare perizia per
decidere, in base alla tranquillità o meno del quadro clinico, alla presenza o
meno di fattori di rischio e in base allo studio della letteratura più recente
sulle potenziali conseguenze di un ritardo di inizio di una cura convenzionale
efficace, se tentare prima un trattamento non convenzionale da solo, se
intraprendere in prima battuta solo terapia convenzionale e associare un
trattamento non convenzionale in un secondo tempo o se iniziare
contemporaneamente un trattamento convenzionale e uno non convenzionale. Vanno
comunque programmati controlli clinici convenzionali di follow-up.
Si ricorda inoltre che si può anche decidere di
prescrivere trattamento non convenzionale non tanto per trattare la malattia di
base (che può essere non più sensibile a modulazione), ma per rendere più
tollerabile e meno tossica la terapia convenzionale necessaria. Naturalmente
anche in tutti questi casi la terapia segue il consenso informato del paziente.
3) Quadro clinico configurante una malattia organica per
la quale non esiste ancora trattamento efficace (nel senso di trattamento
capace di promuovere la guarigione): virosi acute benigne, osteoartrosi,
sclerosi multipla, neoplasia refrattaria a chemio e radioterapia, neurodermite,
eczemi, intossicazioni chimiche, radioattive ed elettromagnetiche, anomalie del
comportamento non configuranti psicosi sensibili a neurolettici, eccetera. In
questo caso può essere proposto un tentativo terapeutico non convenzionale,
come unica ipotesi terapeutica percorribile verso la guarigione, riservando a
trattamenti convenzionali, spesso comunque necessari, un ruolo di tipo
palliativo o soppressivo dei sintomi più indesiderati.
Un ultimo concetto va tenuto in considerazione: il
malato, attraverso la terapia, riceve dei “messaggi” che inducono l’attivazione
di complessi sistemi di regolazione e controregolazione che aiuteranno l’organismo
a reimboccare la strada di quell’equilibrio dinamico tra tutte le funzioni
fisiche e psichiche che definisce lo stato di salute. Non è possibile
decodificare troppi stimoli terapeutici contemporaneamente, per cui è
necessario, oltre a stabilire il tipo di approccio terapeutico più adatto per
quel malato in quel momento, stabilire anche una “gerarchia” di informazioni
terapeutiche da somministrare e cercare di stabilirlo con una logica: “adesso
questo, dopo quest’altro infine si cercherà di sbloccare quel meccanismo là”.
In linea generale, poiché l’organismo decodifica
meglio poche informazioni che molte informazioni, occorrerà fornire ogni
volta il minimo numero di informazioni terapeutiche sufficiente, senza fretta di
conseguire risultati eclatanti, ma sapendo cosa si vuole ottenere.
Una volta valutate queste cose, si potrà impostare la
terapia “secondo scienza e coscienza”.
Riepilogo:
Bibliografia